Sunday, February 25, 2007


Ben ritrovati a tutti, come ogni settimana vi propongo un nuovo capitolo...buona lettura!

Di là del Verde Giardino

«…Perché è dal contributo che si costruiscono le basi per una società migliore, basata, sull’efficienza, sul merito, la comprensione, la libertà e soprattutto la giustizia. I tempi che corrono non sono i migliori che abbiamo visto, ma nemmeno i peggiori, io e la mia amministrazione lavoreremo affinché il disordine e l’anarchia e la pseudo democrazia che tanto piace ai nostri avversari possa terminare. Abbiamo visto tutti quali sono le conseguenze di una libertà così abusata come è stata quella che ha causato il maggior numero di danni: un esempio sono le migliaia di persone che come topi sbarcano a frotte sul nostro paese…»

CLICK

«Dio te ne renda merito, Mazim!» esclamò Daniel.
«A me diverte invece.» rispose il ragazzo. «Dai è come ascoltare uno di quei racconti narrati la sera alla radio. Solo che questi sono veri.»
«Io non mi diverto.»
«Edina, tu non ti diverti nemmeno al tuo compleanno!» fece eco lui. «Secondo me stai prendendo sul serio quel travestimento da suora che porti!»
«Allora dimmi, cosa ci trovi di divertente in un sfottuto pazzo che blatera di guerra e ordine? La gente gli crede non perché sia convinta di quello che dice, ma perché ne ha paura. Sa che se qualcuno provasse a contraddirlo, verrebbe incarcerato e deportato nelle miniere a sud o nei campi a nord. La gente muore, sola e triste…e ora dimmi: cosa ti diverte?»
Nessuno parlò.
La camionetta procedeva verso sud, pesante e lenta attraverso strade deserte e piene di neve.
«Cosa dicevi a proposito di oggi?» Mazim alla guida assumeva sempre un aspetto da professionista veterano, con la pipetta d’oppio di lato ed un basco calato sugli occhi.
«A proposito di cosa?»
«Dei tumulti a T.D. Square.»
«Non so di preciso cosa sia successo. Lucky mentre tornava dalla sede della Legione Nera, ha assistito ad una scena paradossale: un gruppo di persone in fila per la dose di penicillina quotidiana, di colpo ha dato di matto: prima hanno preso a spingersi, poi si sono picchiati l’un l’altro…»
«Ed è intervenuta la polizia…» concluse Mazim.
«No!»
«No?»
«La polizia è rimasta a guardare come si massacravano, poi hanno deciso di intervenire.»
«Hanno aspettato che si uccidessero tra di loro?» Edina era incredula, passò a Daniel un fucile a doppia canna corta, poi si sistemò una pistola nella giarrettiera sotto la tonaca nera.
Lui annuì.
«Ma perché?»
«E che ne so, non sono un veggente!»
«Ci sarà stato un motivo che ha dato il via alla cosa…forse il fatto stesso di spingersi…la gente è nervosa e basta anche una piccola stronzata per arrivare a fatti del genere…»
«Non lo so, Edina. Lucky ha visto tutta la scena e ha detto che è stato un attimo, prima si sono spinti, poi hanno cominciato a darsele, quello che non riesco a capire è il verso che facevano…»
«Versi?» chiese lei.
«Urla di dolore immagino…» suggerì Mazim.
«No. Lucky me li ha descritti come il verso di un gatto con una lisca di pesce in gola…»
«Eh?» Mazim sembrava divertito. Diede la pipetta a Daniel che tirò un paio di boccate e poi la passò ad Edina.
Il sole pallido e debole cominciava a tramontare sulla città, dietro una seconda camionetta li seguiva a pochi metri di distanza entrambe avevano il simbolo della Pia Società Cristiana, comprate ad un asta del mercato nero qualche anno fa.
Superarono un ponte , poche auto che si affrettavano ad abbandonare la strada, dietro di loro la grande città al tramonto appariva bellissima.
«La scena non deve essere stata bella da guardare, è possibile che Lucky si sia immaginato quel verso, o magari ha sentito qualcuno sgozzato…» suggerì Edina.
«Non lo sapremo mai, Edina. Comunque, dovremmo arrivare tra un’oretta. Il furgone è partito da Uprise alle tredici precise, se continuiamo così alle diciassette dovremmo incrociarlo sulla statale all’altezza della stazione Gialla.!» affermò con calma e decisione, riprendendo la pipa dalle mani di Daniel.
«Che cazzo sei, un calcolatore industriale?»
Mazim li guardò e scosse il capo senza dire nulla.

Come una delle altre stazioni, quella Gialla spuntava come un dente marcio nel bel mezzo del nulla. Il suo colore ocra e i contorni molli la faceva assomigliare ad una grossa pepita d’oro.
All’interno della parete ad alto voltaggio che la circondava, c’erano altri tre furgoni.
Le pompe del gasolio erano a guardia, immobili e silenziose.
Parcheggiarono un poco più distante con la parte frontale delle vetture verso l’uscita, i membri dell’altra camionetta, anche loro con abiti sacerdotali, rimasero dentro.
Due miliziani armati li seguirono con lo sguardo fino all’entrata.
«Non vi sentite osservati?» chiese Mazim sarcastico.
«Falla finita!» sibilò Edina a denti stretti.
«Silenzio!» fece eco Daniel.
All’interno un grammofono elettrico mandava Hanged Charleston, alla luce di lampade dalla forma sferica. Un bancone a staffa di cavallo occupava buona parte della stanza e dietro un uomo dalla calotta cranica di acciaio che li osservò incredulo, cosi come le altre persone sedute.
Edina e Mazim andarono a sedersi ad un tavolo, Daniel si avvicinò all’uomo, appoggiandosi al bastone e fingendo di essere zoppo.
«Buonasera figliolo!» esordì lui con un sorriso fresco e sincero.
L’uomo dietro il bancone grugnì un saluto, ma non si scompose, due grossi favoriti biondicci gli scendevano ai lati del capo, andandosi a ricongiungersi ai baffi e alla barba.
«Siamo in tre. Può portarci tre panini e tre caffé, e tre li prepara da portare via? Grazie!»
«Non si serve ai tavoli!» rispose l’uomo serio.
Daniel non perse l’allegria: «Oh, allora in questi casi, potrei avere tre panini e tre caffé e tre da portare via? Grazie!» ripeté.
Il barista lo servì quasi controvoglia e lui tornò al tavolo con un vassoio.
«Credo che la preghiera oggi debba dirla sorella Edina, padre!» disse Mazim prendendo un panino.
«Che stronzo!» esclamò Edina sottovoce.
«No, la dirò io!» rispose Daniel giungendo le mani.
Gli altri due lo seguirono in silenzio.
«Mazim, l’ovest è da quella parte!» disse lei ad alta voce.
Questa volta anche Daniel scoppiò a ridere.
«Ok ok, basta così, touchét Edina!» disse Mazim ritornando serio.

Alle diciassette e dieci minuti e venti secondi, il rumore della cancellata e di una vettura, li fece sobbalzare, distrattamente Mazim guardò fuori da una delle finestre con le sbarre e nella luce dei lampioni vide un furgone verde fermarsi accanto ad uno dei loro.
Ne scese un uomo robusto che aggiustandosi le brache, chiuse la portiera a chiave e si diresse verso la porta della stazione di servizio.
«Credo sia meglio andare ora.» disse lui alzandosi. «Finite con calma, vado a mettere il carburante e dare un’occhiata alle gomme.» ed uscì.

Fece tutto con estrema calma e precisione, osservando più volte, senza farsi notare dai miliziani, il veicolo appena arrivato. “Il motore è nel telaio davanti, pneumatici a camera d’aria…il bastardo lo ha anche corazzato!” osservò, ma c’era troppa poca luce e non riuscì a vedere oltre. La scena gli ricordò alla mente la prima volta che aveva piazzato una bomba sotto un furgone della polizia, circa sei anni prima, allora la rabbia e l’immortalità erano due prerogative che lo accompagnavano e tutto appariva più facile, anche morire.

«Sembra ben piazzato!» esclamò uno dei finti preti sottovoce.
«Così sembra…» rispose secco Mazim.
«Cosa ne dici Mazim? Lo buttiamo fuori strada o gli spariamo alle gomme?» rimbeccò un altro come se dovesse salire su una giostra.
«Non dico niente.» si limitò a ribattere. “Anche perché sei troppo idiota per capire di dover stare zitto!” aggiunse poi.
«Mettete in moto, partiremo a breve!»
Ad uscire dalla stazione per primo fu l’uomo del furgone.
Si sistemò un cappello con visiera sulla testa e indosso un paio di guanti e accendendosi una sigaretta si incamminò lentamente verso la vettura.
Poco dopo uscirono anche Edina e Daniel, lei stringeva sotto braccio lui, che fingeva ancora di essere storpio e andava appoggiandosi al suo bastone.
Mazim li spalancò la portiera e fece salire prima lei, poi aiutò Daniel a sedersi: «Non ti sembra di esagerare ora? Non pesi due chili!» gli fece notare lui tra i denti.
«Zitto o se ne accorgeranno…» gli sorrise Daniel.

La cancellata finalmente si aprì, da sola. I miliziani attesero che tutti e tre i furgoni fossero usciti per abbassare le armi, poi la richiusero e tornarono a girare lungo il perimetro interno della stazione.
Attesero che i fari delle torrette fossero ben distanti per sorpassare il furgone con i medicinali, i fari passando illuminarono per un attimo la sagoma dell’uomo che trangugiava qualcosa, poi andarono oltre. Gli sguardi di ognuno di loro più simili a quelli di un rapace.
Nell’abitacolo freddo, regnava il silenzio.
Mazim accese la radio, armeggiò con la manopola alla ricerca di una stazione, il fruscio crepitante delle onde assunse il suono di un treno che seguiva una corsa lenta e costante…

-…Messaggio autoregistrato numero 1217. Parade, di Erik Satie…-

Una musica lenta e poderosa, che aveva dell’anacronistico, cominciò ad espandersi.
«Mandano ancora i messaggi autoregistrati?» chiese Daniel.
«Non li hanno mai interrotti.» puntualizzò Mazim.
«Ma sono uno spreco, quelle postazioni potrebbero essere utilizzate per altri scopi…»
«Daniel ti sembra che questa sia l’epoca della parsimonia?»


I due furgoni procedettero per altri dieci chilometri, poi si fermarono sul ciglio della strada, in attesa. Intorno il vento freddo soffiava in un lamento angosciante e continuo, Daniel e Mazim scesero dalla vettura per sgranchirsi le gambe, Edina rimase seduta sul sedile con le mani che giocavano nervosamente tra di loro.
«Vuoi?» Mazim passò una fiaschetta di metallo a Daniel, che ne bevve un lungo sorso, asciugandosi poi col dorso della mano.
«Cos’è?» gli sembrò che qualcuno gli avesse fatto esplodere un petardo alle erbe dentro la bocca, il sapore era buono, ma era forte
«E’ un liquore di mia invenzione, ma non sperare che venga a dirti cosa c’è dentro…» fece l’occhiolino sornione. «Allora come vogliamo procedere?» domandò bevendo di nuovo dalla piccola fiaschetta.
«Così come si era detto!» rispose Daniel controllando le canne del fucile.
«Secondo me è pericoloso lasciarla in mezzo alla strada…»
«Mazim ho provato a spiegarglielo ma lei sostiene che una suora che sbraccia di notte nel mezzo della strada abbastanza convincente, e sarà sufficiente per fermare la camionetta.»
«Il vecchio trucco del soccorso…» scosse il capo in un sorriso amaro: «L’ho visto riuscire troppe volte per potermi ancora fidare!»
«Avevi un’idea migliore genio del crimine? Non avevamo molto tempo per metterci a discutere un piano decente da fare.»

I fari della camionetta spuntarono molto tempo dopo facendo capolino dall’orizzonte.
Nel vederli ognuno prese la sua postazione, con le armi in pugno e il cuore in gola, sentirono il suono del motore che si faceva sempre più vicino.
Mazim, muto e immobile, piegato accanto alla ruota anteriore, chiuse gli occhi cercando di respirare tranquillamente, l’oppio aveva finito il suo effetto da un’ora, ma il liquore gli scorreva dentro dandoli calore e sicurezza; vide i campi attorno bui e deserti, dall’oscurità dentro cui erano immersi, immaginò sbucasse fuori qualcosa di terribile che lo aggrediva.
Cominciò a sudare.
Il rumore del furgone era vicino, da dove si trovava lui era impossibile vedere qualunque cosa che non fosse l’immensa vastità attorno, “E’ con le orecchie che devo vedere…”
«…Dove scorrono fiumi e frutti perenni, e la sua ombra…» recitò sottovoce tenendo stretto il calcio della Luger: «…E la sua ombra…e la sua ombra…com’era, cazzo!»
«Ferma! Per carità si fermi!» la voce di Edina che implorava lo scosse dalle preghiere, imprecò contro sé stesso e contro la cocciutaggine di lei. Alzò un attimo la testa, ma non riusciva a vedere nulla. Daniel era dentro l’abitacolo che si fingeva ferito, con un po’ di sciroppo rosso versato sulla tempia. Degli altri nemmeno l’ombra.
«Un colpo di sonno, credo. Oh buon Dio, mi aiuti, è immobile, non si muove più!» la voce sembrava sull’orlo del pianto.
Però ci sa davvero fare con le interpretazioni…
Sentì aprirsi una portiera.
E qualcuno borbottare qualcosa.
Si abbassò.
Da sotto il furgone poteva vedere le gambe di Edina nella tonaca nera ed un altro paio di gambe, quelle del guidatore.
Aprì lentamente uno spiraglio nello sportello dove era appoggiato e attese.
«E’ accaduto tutto in un attimo!» continuò lei nello stesso tono. «Ha abbassato la testa ed è uscito fuori strada. Sono riuscita a frenare prima che ci ribaltassimo…»
Erano vicini.
Un attimo. Solo uno, poi sarebbe sbucato anche lui.
Aveva caldo. Gocce minute di sudore gli imperlavano la tempia sinistra. Si tolse il basco, senza fare rumore e si passò una mano sulla testa rasata, il vento freddo lo rinsavì e gli fece spalancare gli occhi.
La voce di Edina continuava a parlare, ma l’uomo rimaneva in silenzio. Non vedere i loro gesti, le loro facce, lo mandava in bestia, la pazienza veniva lacerata dall’adrenalina che, corrosiva, gli elettrizzava il corpo.
Nello spiraglio buio distinse il braccio di Daniel stringere lentamente il calcio del fucile, fu per lui un segnale.
Spalancò la portiera caricando la pistola e si raddrizzò, puntando l’arma verso l’uomo.
«Salve!» salutò sorridendo e compiaciuto.
L’uomo non si mosse, ma il suo sguardo lasciò trasparire sorpresa e incomprensione.
Daniel aprì gli occhi e con la mano puntò le canne del fucile sotto il mento del tizio.
Edina smise di parlare e fece due passi indietro.
«Allora, lardoso figlio di una cagna sifilitica! ora senza fare nulla di avventato, ci darai le chiavi del furgone, noi lo puliremo e poi potrai tornare al tuo viaggio, intesi?»
L’uomo non si muoveva.
«Hai capito cosa ti ho detto?» ripeté Mazim.
Ma il tipo era immobile e lo guardava fisso negli occhi che nel frattempo avevano perso espressione.
Nel frattempo gli altri erano sbucati dal secondo furgone e puntavano le loro armi, muovendosi cautamente.
“Era ora stronzi dorati!” esclamò lui vedendoli.
«Figliolo.» cominciò Daniel. «Ascolta quello che ti dice, nessuno vuole farti del male, vogliamo solo…»
Il corpo dell’uomo cominciò a fremere, come in preda a delle scosse, un filo di bava gli colava lungo l’angolo della bocca e lo sguardo fisso su Mazim, che improvvisamente si sentì colpevole.
«Daniel…?» chiamò lui come a chiedere cosa fare.
Con un movimento deciso e senza prestarci attenzione, l’uomo strappò il fucile dalle mani di Daniel, rigido si muoveva a scatti veloce come una furia, aveva cominciato a gemere in maniera spaventosa, un verso strano…
“Un gatto con una lisca di pesce in gola…” pensò Mazim, poi sparò.
Nell’aria risuonarono due spari quasi all’unisono, poi come un’orchestra seguirono gli altri.

Quando il silenzio e la calma furono ritornati, l’uomo del furgone era accasciato contro la portiera, tutta la sua materia cerebrale sparsa sul finestrino come un dipinto d’avanguardia, la parte superiore del cranio non esisteva più e il corpo era sparso da fori rossi.
Accorsero tutti verso Daniel, che si toglieva pezzi di cervello dalla faccia:
«Un tipo tranquillo vero Mazim?» chiese rimettendosi in piedi.
Mazim non rispose.
Daniel si precipitò sul sedile accanto, sporgendosi fuori: Mazim era per terra e si teneva lo stomaco colorato di rosso, guardava sorridendo a denti stretti, con il sangue che gli sgorgava sul mento ed una lacrima, forse di paura, sotto gli occhi.
«Ti dicevo che non c’era da fidarsi del trucco del soccorso…» gli disse a stento.
Poi chiuse gli occhi e giacque immobile sulla neve.


Saturday, February 17, 2007


Salve a tutti. Ecco un nuovo racconto, anche questo come i due precedenti possono essere letti singoli o uno dietro l'altro.
Buona lettura.

Di Assenzio e di altre Illusioni

Avevano corso per buona parte della notte.
Aggirando truppe di miliziani che pattugliavano le strade come mastini, in posti di blocco con fuochi da campo disposti nei vari punti ed incroci, e superando recinzioni con filo spinato.
Quando furono ad un isolato di distanza dall’appartamento le sirene della polizia cominciarono a farsi più vicine.
Nella fredda notte, la mente della donna incrociava mille pensieri: canzoni e filastrocche natalizie eseguite da cori di voci bianche, si ritrovò ad adattare la musica al veloce passo che lei e Dustin avevano intrapreso.
«Perché non siamo rimasti lì? Avremmo potuto spiegare tutto alla polizia, di come quella donna, la Ganowski, ci ha aggrediti e di come noi ci siamo difesi. Torniamo Dustin, e li racconteremo tutto, ho sparato io, no?»
«Hai dimenticato che lì ero sotto sfratto e fornivo oppio alla vittima, tutti ottimi motivi per mandarmi al cappio in poco tempo.»
«Hai ragione.»

Aveva ripreso a nevicare da circa un’ora. Più o meno da quando avevano lasciato l’appartamento. Le luci colorate erano state spente, così come molti dei lampioni, rimanevano solo piccole isole di luce, da cui loro due si tenevano a distanza.
«Da questa parte.» disse lui.
Svoltarono in un vicolo deserto come il resto delle altre strade, fermandosi un attimo per poi riprendere a camminare furtivamente tra una zona d’ombra e l’altra e ritrovarsi in un ennesimo vicolo, “Ma quanti sono?”.
Sorpresa e confusa, Sophie cercava di tenere il passo, cosa quasi impossibile con le scarpe coi tacchi, scomodi e rumorosi, affondavano a volte nella neve rischiando di farla inciampare.
«Ti prego Dustin, rallentiamo, non ce la faccio più!»
«Siamo quasi arrivati.»
«Dove stiamo andando?»
«Da un amico.»

Pulsate et apriebatur vobis

Questo era scritto sullo stipite della grossa porta rinforzata, scolpito nella pietra gialle del piccolo edificio.
La casa si trovava fuori dal centro abitato, circondato su tutti e quattro i lati da un ampio e ombroso giardino dalle siepi a forma di coni, piramidi e sfere, curate con una precisione maniacale, attenta alle imperfezioni che potevano crearsi.
Sophie ammirò le composizioni che la sovrastavano, con timore e riverenza, stringendosi nel cappotto scuro, seguì Dustin fermo dinanzi alla porta
«Cosa significa?»
«E’ latino, o italiano forse. Non è importante comunque.
Afferrò uno dei batocchi e bussò tre colpi decisi.
DUUMM
DUUMM
DUUMM…

Quando il rimbombare dei colpi cessò, si udì un ronzio metallico oltre la porta.
CLACK!
E lo spiraglio nero apparve dinanzi a loro, una fessura nel buio.
«Piuttosto scenico, no?» disse lui ed entrò.
Sophie guardò attorno le siepi che immobili parevano scrutare ogni sua mossa, cadde un po’ della neve che le ricopriva, e rabbrividendo seguì Dustin.

«Vieni piccola mia. Qui, vicino a me!»
Come tutte le altre volte l’uomo sedeva nell’ombra, con la finestra sbarrata alle spalle, l’unica luce quella della porta da cui entrava, poi ritornava il buio, così vivo, così palpabile, così freddo…

Una volta dentro rabbrividì.
Non sembrava fare freddo, ma l’oscurità attorno era sufficiente a farle sentire un gelo mortale, il suo respiro divenne affannoso e il cuore cominciò ad accelerare.
Allungò una mano alla ricerca di quella di Dustin, ma non trovò nulla, solo il vuoto.
«…Dustin…?»
«Sono qui dolcezza.» la rassicurò lui.
«Non si vede nulla.»
«Non abbiate paura.» fece eco una voce nel buio.
Le luci si accesero, prima su di loro, poi tutto d’intorno.
Erano all’entrata di una grande sala affrescata, colonne bianche alle pareti contrastavano con il rosso vivo e lucido del pavimento.
E proprio di fronte a loro una scala in ferro dalla ringhiera arabescata saliva verso l’alto, in cima un uomo.
Sophie non seppe dire se era più bizzarro o semplicemente fuori posto.
Era grasso, questo notò subito lei.
Indossava una giacca da camera blu dai motivi floreali, collo di pelliccia dello stesso colore, e un panama bianco messo di traverso sul capo; nella mano un bocchino bianco con una lunga e sottile sigaretta.
«Non sono grasso, signorina Sophie!» puntualizzò l’uomo scendendo i gradini lentamente, incorniciato da volute di fumo.
La sua voce nasale ma morbida: «E’ una grave disfunzione della tiroide.» ribadì sorridente in modo lezioso.
Lei non disse nulla ma guardò Dustin con gli occhi sgranati.
«Buonasera Dustin. O sarebbe meglio dire buon mattino, dato che sono esattamente le due del mattino. Cosa è accaduto questa volta?»
«Ci troviamo…» cominciò lui.
«Nei guai.» sospirò. «Sì, lo avevo capito da solo, tesoro mio. Non mi presenti la tua amica?»
Dustin si irrigidì arrossendo: «Bè, sì…Sophie lui è…»
«Barone Absinth. Molto piacere, Sophie.» intervenne l’uomo prendendole la mano, fece un lieve inchino, la pelle liscia e lucida aveva un vago odore di mandorle, un grosso paio di occhiali da sole blu li copriva gli occhi a mo’ di maschera.
«Immagino che davanti un drink vi sentirete meglio e riuscirete a delucidarmi. La notte è fredda, anche se volge al termine, ma noi non abbiamo fretta, no?»
«Barone sarebbe meglio se la signorina Sophie si riposi, è stata una lunga notte …»
«Ritengo che Sophie sia sufficientemente matura e responsabile da riuscire a prendere una decisione anche senza il tuo indebito aiuto, Dustin.»
«No.» rispose risoluta lei. «Credo che Dustin abbia ragione, barone. Sono molto stanca e vi sarei grata se potessi ritirarmi….col vostro permesso.»
Absinth sorrise scoprendo una dentatura bianca, perfetta, che lei si accorse essere porcellana.
«In questo caso, mia cara, vi accompagnerò io stesso!»

Sola nella stanza, Sophie si soffermò a guardarsi nel grande specchio ovale, con indosso una camicia notte che le arrivava sino alle caviglie, ricamata con i soliti motivi floreali.
Alla parete un applique di vetro istoriato dalla forma di farfalla, mandava luci calde di colore giallo, rosso e verde, confortevole ed accogliente come una cioccolata calda.
“Mandorle. Ancora quell’ odore…o forse anice…”
Fuori il buio continuava a sorvegliare l’edificio, che dall’interno sembrava molto più grande di come più grande da come le era apparso da fuori.
Sedette sul bordo del letto, carezzandone la superficie delicatamente, con gli occhi chiusi ed un sorriso leggero sulle labbra, la mano corse avanti e indietro, con una delicatezza infinita, le coperte erano morbide e profumavano e come tutte le cose soffici provocarono in Sophie un genuino innamoramento temporaneo, un piccolo orgasmo di sensi che la sconvolgeva sul momento e le dava la forza per andare avanti.
C’era silenzio.
Lontani come in un sogno sentiva le voci del barone e Dustin che parlavano, ma non riusciva a capire le parole, giungevano come echi sottili, alla stregua di ricordi che affiorano dalla mente.
Improvvisamente la tensione si sciolse, la stanchezza della giornata passata la travolse completamente, braccia e gambe si fecero pesanti; smise di toccare il letto, si sdraiò supina, soddisfatta e del tutto rilassata.

Quell’uomo è strano, ha qualcosa di teatrale e inquietante. Non può avermi davvero letto in testa. Questa casa poi, sembra costruito tutto alla perfezione, mobili suppellettili…carina la lampada a farfalla, deve avere molti soldi per permettersi una bizzarria dietro l’altra, come avrà conosciuto Dustin? Absinth! Assenzio…strano nome, forse uno pseudonimo, oppure…”

Non ricordava di aver sognato, solo di aver dormito pesantemente.
Le faceva male la testa e aveva la bocca impastata di un vago sapore dolciastro. Si sentiva come fosse sbronza.
Cercò di mettersi a sedere, la luce, che chiara e limpida filtrava dalla finestra, le fece richiudere istantaneamente gli occhi, le tende erano tirate ed un fascio illuminava la stanza in obliquo, la lampada alla parete spenta.
Si vestì dando le spalle alla finestra, il vestito della sera prima le riportò alla mente la Ganowski che annaspava su Dustin, il verso orribile che usciva dalla gola e lo sparo…rabbrividì “Ho ucciso! Non era mai successo…” guardò le mani con colpevolezza, poi bussarono alla porta.
«Sophie, sono io. Scendi, il barone ci vuole a colazione» la voce di Dustin la distolse dai rimorsi.


La sala dove Absinth li attendeva dava sul giardino, una parete a vetri mostrava altre siepi e alberi rigogliosi, tutto ammantato di neve una luce di un sole che non c’era brillava colorando la stanza.
Lui sedeva a capo tavola in una poltrona in vimini verde, il solito panama sulla testa di lato, gli occhiali ed un completo di lana color caffé dalle striature bianche, nel complesso, dava l’impressione di un grosso cappuccino.
«Ben arrivati miei cari!» esordì lui col sorriso piacente di un gaio mecenate. «Spero abbiate passato una buona notte.» poi si rivolse a Sophie:« Mi duole, signorina Sophie che non si sia potuta cambiare d’abito, ma ahimé non ho in casa abiti femminili, ma siete molto graziosa anche così. Sedete, sedete pure!
«Innanzitutto vi auguro un buon Natale. Data l’occasione ho pensato di farvi un piccolo regalo…George!» chiamò verso una porta dalla parte opposta.
Entrò un uomo sulla cinquantina, con un scuro e camicia bianca che portava una borsa nera, la consegnò al barone e si inchinò mettendosi di fianco.

George, signori, è il mio tuttofare, e mi assiste da più di trentanni. Questo vi lascia immaginare l’età che potrei avere io, ma non faremo parola a nessuno.» rise scuotendo leggermente le spalle e portandosi una mano davanti la bocca.
“Una signora dell’alta borghesia!” visualizzò lei sovrapponendo le due immagini nella mente.
«La ringrazio per il complimento, Sophie!» esclamò lui.
Lei arrossì.
«George questa notte è tornato a casa tua, Dustin, eludendo le patetiche ronde notturne che vagano per le strade durante questo inutile coprifuoco…» fece una smorfia di disapprovazione.
«Casa mia?» lui sobbalzò sulla sedia.
Absinth mugolò un assenso compiaciuto, odorando un piccolo stelo di artemisia appuntato sull’occhiello.
«Chiaramente la polizia era già andata via, portando con sé molta della tua roba, George ha preso quello che poteva…» la porse a Dustin che l’aprì.
Un paio di pantaloni e delle camicie, assieme ad una bottiglia di scotch e qualche pacchetto di sigarette.
«Per lei signorina Sophie, dato che non conoscevo il suo indirizzo, ho optato per dei vestiti e delle scarpe di mio gusto, che spero le piaceranno…»
George nel frattempo aveva portato sulla tavola delle torte salate ed una zuppiera con della purea, più una quantità di piattini con salsine di vario colore.
«Vi starete chiedendo perché…Dustin non potrai più tornare a casa, spero te ne renderai conto. Uccidere la tua padrona di casa è molto romantico, te lo concedo, però poteva andare bene per un secolo fa, le giurie ti avrebbero condannato al minimo, forse saresti stato anche un eroe. Ma nel mondo in cui viviamo non va bene.
La polizia probabilmente è già sulle tue tracce, sei un assassino a piede libero, e se venissi catturato la tua unica via di fuga sarebbe su un patibolo e con una corda attorno al collo.»
«Ma non l’ha ucciso lui!» protestò lei vivamente.
«Non importa chi ha tirato il grilletto!» rispose il barone. «La stessa sorte, duole ammetterlo, spetterà anche a lei!»
«Come fa a sapere della pistola? Lei.. lei legge nel pensiero? È da ieri notte, lo ha fatto anche questa mattina! Come? Non può, non deve, lei…»sembrava sul punto di una crisi isterica.
«Non leggo nella mente, signorina Sophie! Percepisco emozioni e sensazioni, se proprio le interessa. Conosco la dinamica dei fatti perché me li ha raccontati Dustin quando lei è andata a letto; ma non è questo il punto. Siete complici, e non potete rimanere a lungo in città, la clandestinità è limitativa e alla lunga si risolve sempre con la cattura.
«Nel vostro caso con la cattura di entrambi. So per certo che lei Sophie ama Dustin e non lo abbandonerà al suo destino, per quanto turpe esso possa essere.»
Sophie scoppiò in lacrime, coprendosi il volto con le mani.
Dustin andò da lei abbracciandola.
Il corpo di lui bastò a riscaldarla e farla sentire protetta.
«Ma dove andremo?» chiese lui.
«New Jerusalem!» esclamò Absinth.
Sophie ebbe un sussulto.
«New Jerusalem?»
«E’ quello che ho detto, Dustin!»
«Moriremo!»
«Morirete comunque se rimarrete qui. E potreste morire anche solo avvicinandovi alle cancellate esterne, ma le sorveglianze sono più attente che non entri nessuno dai cancelli, più che a quello che esce…»
«New Jerusalem non esiste nemmeno, ci aspetta il deserto e la morte. Non potete lasciarci andare così, dite di essere amico di Dustin, ma la vostra supponenza e arroganza mi fa pensare il contrario! Come potete fare una cosa simile? Tanto vale consegnarci alla polizia! Se magari non l’avete già chiamata.»
«New Jerusalem esiste per certo, lo so. Quanto alla mia amicizia con Dustin, signorina Sophie, è molto più vecchia della vostra tresca e spero sia viva e forte quanto la stessa amicizia che ho con lui. Vi farò arrivare a New Jerusalem sani e salvi, ve lo prometto, e una volta lì non morirete, a meno che non siate voi a sceglierlo, in quel caso bè cari miei, io non ci potrò fare molto, non vi pare?» bevve un sorso di bianco da un calice lì vicino.
«Quando partiremo?» domandò Dustin.
«Tranquillizzatevi miei cari, non ho intenzione di cacciarvi di casa, quando vi sarete ripresi e sistemati e soprattutto quando vi sentirete pronti allora vi accompagneremo…»
«Vi?» chiese Sophie.
«Io e George, che domande…»

Thursday, February 08, 2007


Salute a tutti
sono tornato col nuovo pc, pronto ancora a farvi compagnia o a rompervi le scatole, a seconda dei punti di vista.
Vi propongo un altro racconto che può essere letto in due modi: o la continuazione ideale di Nostalgia, o un racconto a sè.
Comunque ogni settimana troverete un nuovo racconto, non saranno un granchè, lo ammetto, ma me ne frego dato che sono solo "semplici esercizi di stile"
Alla prossima

Il Prete Cinico:

«...Ci si è mai chiesti che cosa ne sarebbe stato di tutto questo? Guardando attorno quanto è rimasto, mi chiedo se quelli là si sono mai domandati dove li avrebbero condotti le loro azioni, guidate sino all’eccesso dalla smania, non tanto di possedere un proprio spazio vitale sufficiente a sopravvivere; ma dalla sacrosanta necessità di difendersi da ipotetci attacchi vicini.
«Fu un escalation di azioni preventive volte ad evitare qualunque tipo di offesa: dapprima la situazione fu concentrata in un solo punto, si trattò di scaramucce insignificanti a cui nessuno diede peso più del dovuto, daltronde era sempre stata una zona calda e la gente questo lo sapeva, episodi del genere erano ormai all’ordine del giorno. Poi poco a poco, come una epidemia, si sparse dappertutto, e le zone calde si moltiplicarono, divennero sempre più numerose, e i cosidetti potenti resosi conto che la situazione cominciava a sfuggire di mano corsero ai ripari; si riunirono pre una decisione, discussero per intere giornate come mai avevano fatto prima, mentre bombe cadevano un po’ dappertutto e scene di guerriglia cominciavano a diventare quotidianità.»
L’uomo si passò la lingua sulle labbra, fece un attimo di pausa e poi ricominciò:
«Una corsa accellerata contro l’autodistruzione. Ne siamo consci, lo siamo sempre stati, ma abbiamo fatto finta di niente, e ci siamo detti: “Perchè preoccuparci?” oppure: “C’è chi si preoccupa per noi, perchè dovremmo pensare?” Ed ora siamo in questo stato. I miei complimenti a tutti voi!»
Di fronte a lui in basso una piccola folla di persone ascoltava le sue parole, si trattava di gente comune che forse si era ritrovata di fronte a quel prete assiso su una cassa di legno quasi per caso.
Alcuni borbottavano, altri annuivano impercettibilmente, altri invece voltavano le spalle e continuavano per la propria strada.
«Molti di voi...» continuò il prete: «Si dannano, si disperano, credendo di essere il centro del mondo, sento dire in giro tra pianti e lamenti: “Perchè Dio ci ha fatto queso? Perchè ci ha abbandonati? allora vi dico: aprite gli occhi! Guardatevi intorno! Non è Dio ad aver fatto questo, non è Dio ad avervi abbandonato...siete voi i colpevoli! Tutto lo schifo che ci circonda è solo merito vostro, siete voi stessi che dovete biasimare: ognuno è responsabile dele proprie azioni solo di fronte a se stesso! Dare la colpa a Dio è solo un modo per rifuggire dalle vostre responsabilità, ma nel profondo del vostro cuore, sapete perfettamente che la colpa è solo vostra!»
Il prete notò che la maggior parte delle persone erano andate via, rimanevano solo pochi disperati che continuavano ad ascoltare ed il suo seguito a circondarlo intorno alla cassa di legno; fece un sospiro di rassegnazione poi concluse:
«Bene figlioli, è giunto il momento di concludere questa inutile omelia, auguro a tutti voi un buon Natale!» poi aggiunse: «Sperando sia buono!» e scese dalla cassa.
Una volta a terra fu Edina che gli si avvicinò per prima, il lungo cappotto rosso stretto in vita, il cappello a cloche le ricopriva fino alle orecchie, i due occhi scuri lo guardarono con una tristezza bonaria, gli porse il cappello e il bastone nero:
«Mi spiace Daniel...»
«E di cosa? Io li ho avvisati! Poi se si dannano non sono mica fatti miei!» sorrise con la sua bocca larga.
La cinse con la vita e si allontanarono dalla piccola piazza nel parco.
Uno del seguito gli si avvicinò, un ragazzo sulla trentina più basso di lui, rasato ed un pizzeto sottile, si accese una sigaretta, aveva tratti orientali e sopra gli zigomi quattro minuscole capsule di inchiostro nero di forma circolare:
«Non so se hai notato i militari che sono passati. Sigaretta?» porgendogli il pacchetto.
Daniel ne prese una accendendola con un cerino, annuì.
«E tu hai visto i tipi fermi agli angoli?» chiese Edina guardandolo.
«Già.» ammise: «Legionari, direi. Credo che Simmeons sia in città. Tranquilli signori miei, ho mandato Lucky!» rispose come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo.
«Lucky?» trasalì lei: «Sei impazzito? È un ragazzo, se quelli sono davvero Legionari...»
«Potrebbe morire, lo so.» concluse lui.
Nel frattempo i tre erano sbucati da un vicolo adiacente alla piazza, due auto verde scuro li attendevano, entrarono nella seconda e solo dopo che le portiere furono chiuse, gli altri tre del seguito entrarono nella pima.
«Edina...» disse Daniel con tutta calma: «Lucky sa cavarsela, e poi non credo che Mazim lo abbia mandato a parlarci...»
«Sono pur sempre Legionari.» affermò guardando dal finestrino alla sua destra.
«Mazim, dove gli hai detto di raggiungerci?» Daniel giocava con l’impugnatura del suo bastone, una palla da biliardo in argento col numero otto cesellato, come faceva spesso.
«Giù da Zoe. Gli ho detto di aspettarci lì...»

L’auto, guidata da Mazim, proseguì lungo una strada a doppia corsia, era molta la gente in giro quella mattina, la maggior parte di loro a piedi, i portoni delle chiese erano spalancate e fuori gruppi di persone si scambiavano reciprocamente gli auguri.
«Un po’ mi intristisce questo giorno.» disse Edina con lo sguardo verso di loro: «Insomma, quando ero bambina il Natale era splendido, lo aspettavo con asia, la mattina si andava a messa, poi al ritorno ci si scambiavano i regali, ed eravamo tutti insieme a casa dei nonni. Ammetto che mi manca...»
«Tesoro, sai perfettamente che il Natale non esiste.» tagliò corto Daniel.
Lei gli schioccò un’occhiata annoiata: «Lo so, Daniel. Ma non è questo il punto.»
«E qual’è?» chiese lui divertito.
«E’ che sei uno stronzo!» rispose lei.
Daniel inarcò un sopracciglio guardandola di traverso.
Mazim sogghignò poi aggiunse: «Non per distarvi, ma ieri sera, ho ricevuto una soffiata su un carico di farmci in arrivo da Boston, potremmo andarci a dare un’occhiata, no?.»
«Noi tre?» domandò Edina.
«Noi tre e gli altri. Non dovrebbe essere una cosa complicata, a quanto pare il guidatore è un tipo tranquillo e prima di farsi ammazzare consegnerebbe il carico senza pensarci troppo su.»
«Mi chiedo chi ti venda tutte queste informazioni...»
«Ti chiedo mai chi ti da tutte le informazioni durante le tue meditazioni?»
«Non è la stessa cosa...»
Il ragazzo fece spallucce: «Per me sì!»

Anche il giorno di Natale il porto era gremito di persone.
In lontananza la sagoma di Lady Liberty svettava imponente, guardando fiera chiunque approdasse sulla riva.
Un enorme imbarcazione nera vomitava i superstiti del viaggio dal proprio fianco, che si riversavano in massa sulla banchina: gente di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali guardavano intorno spaventati e affascinati, dai loro occhi si percepivano il timore, la speranza e il ricordo di un nuovo passato ed un vecchio futuro.
Le due auto si fermarono poco più lontano della capitaneria, dove poliziotti pattugliavano come mastini troppo affaticati.
Daniel e Edina scesero, l’uno accanto all’altra.
Soffiava un vento freddo che veniva direttamente dal vasto oceano spalancato di fronte a loro, incamminandosi verso la banchina i loro occhi rotearono in tutte le direzioni, come alla ricerca di qualcosa o di qualcuno.
«Quale è la nave con cui arriva?» domandò lei.
«Si trova al molo 8, credo sia già arrivata.»
«Ma chi è davvero questo tuo ospite misterioso?»
Daniel guardando davanti a sè e disse: «Un caro amico.»
«Daniel odio questo tuo modo misterioso di fare, lo sai. Potevo rimanere in casa a farmi un po’ di fatti miei, e invece sono qui con te a patire questo fottuto freddo. Esigo di sapere chi stiamo andando a prendere!» disse lei categorica, piazzandosi di fronte con un dito che si agitava minacioso verso la faccia di lui.
I grossi occhi marroni la fissarono per un attimo, poi sorrisero e le labbra seguirono di lì a poco.
«E va bene.» sospirò. «E’ un ragazzo italiano. Ha dovuto lasciare il paese perchè le guardie papali gli stanno dando la caccia. Noi lo accoglieremo e gli daremo una casa e magari un lavoro...»
Edina sgranò gli occhi: «Ma sei impazzito? Viviamo con il fiato della legge sul collo, ogni nostra mossa è controllata, sanno anche che siamo qui, e tu cosa fai? Ti metti ad accogliere esuli, fuggitivi e ricercati! Ma bravo, complimenti padre Daniel! Proprio un bel momento per mettersi a fare il gioco della carità cristiana!»
E’ sempre più bella quando si arrabbia!” constatò mentalmente.
Nel frattempo la coppia era arrivata alla brulicante folla, mischiandossi con essa. L’odore era quello di gente mista: acque di colonie che si mischiavano a quello di piatti cinesi venduti da un ristorante su un carrettino a due ruote; tabacco di infimo ordine che si confondeva con quello di pesce fresco.
Daniel prese Edina sotto braccio e le diede una debole e furtiva stretta, lei lo guardò e di rimando lui indicò col capo un gruppo di militari che vigilava osservando la gente in fila scesa dalla nave.
Imbracciavano un fucile d’ordinanza con la canna rivolta verso il basso.

«Ehi mussy, di chi è questa auto?». Un uomo in uniforme gli si piantò davanti agitando minaccioso uno sfollagente.
Mazim si spinse la sigaretta appena girata sul lato sinistro della bocca:
«E’ una domanda d’ordinanza o è a titolo informativo?» sorrise.
«E’ una domanda! Puoi rispondere a me o a lui, scegli tu.» indicando l’oggetto nella sua mano.
«L’auto non è mia, io sono solo l’autista.»
«I documenti!» ordinò perentorio l’uomo.
Mazim si frugò nell’ingombrante cappotto cammello, la punta dello sfollagente si appoggiò delicatamente nell’incavo del braccio.
«Con dolcezza, mussy, o dovrò pensare che stai estraendo un’arma.»
“Figlio di una cagna sterile!” continuava a sorridere e con delicatezza estrasse una custodia nera.
«Bene. Ora tiralo fuori!»
Mazim obbedì.
«Maximilan Prenton.» lesse ad alta voce guardando la foto in bianco e nero, rivolse il suo sguardo verso il ragazzo e poi nuovamente alla foto, socchiudendo gli occhi, come se non capisse, come se c’era qualcosa che gli sfuggiva; Mazim nel frattempo gli sorrideva.
«I documenti dell’auto!» ordinò secco.
Con la solita tranquillità, Mazim frugò nell’abitacolo, l’uomo si accostò sbirciando all’interno, e ancora una volta rimase deluso nel trovarci nulla di compromettente o sospetto.
«Ecco a lei agente.» disse Mazim.
L’uomo prese i documenti e cominciò a studiarli, fece un giro della vettura controllando la targa, ordinò a Mazim di aprire il bagagliaio e lui obbedì prontamente.
Con la cosa dell’occhio a pochi metri più indietro, Mazim notò la seconda auto parcheggiata poco più in là, bastò una fugace occhiata e la vettura partì sparendo oltre l’angolo.
«Qui dice che l’auto è di un certo Jeremy Milton…»
«Sissignore!» rispose lui. «E’ il signore per cui lavoro. È un sacerdote…» sgranò gli occhi mentre il sorriso si allargava: «Eccolo!»
L’agente si voltò
Daniel, Edina d un uomo biondo procedevano verso di loro.
«Buongiorno capitano.» salutò cordialmente Daniel.
«A lei.» rispose l’agente toccandosi il berretto e aggiunse in tono stizzito: «Non sono capitano. Lei è …»
«Padre Jeremy Milton, sì sono io. Posso aiutarla?»
L’uomo parve stordito dall’interruzione.
«Bè veramente…» farfugliò.
«Il signor Capitano stava controllando la sua auto, padre.» intervenne Mazim.
«Ah sì è un’ottima automobile, un po’ vecchia forse, lo ammetto, ma a cosa mi servirebbe un ultimo modello?» allargò le braccia bonariamente.
«E’ di mia proprietà ma non ho la patente. Ma questo credo, non costituisce reato, vero capitano?»
«Non sono…»
«Bene. Meno male, sennò che paese libero sarebbe mai questo, se un uomo come me non avesse il diritto di possedere una vettura pur non potendola guidare? D'altronde un ottimo autista come Mazim…»
«…Milian…» fece eco il ragazzo.
«Maximilan, certo. Spero comunque non ci siano problemi. Ho appena finito di celebrare una messa e sono venuto a prendere mio fratello arrivato questa mattina dall’Inghilterra.»
Il biondo inarcò un sopracciglio e Edina prontamente gli diede una gomitata.
«Mi spiace, è un po’ stanco, quindi ci perdonerà se andiamo via, vero? D'altronde se ho capito bene è tutto regolare, no?»
L’agente nel frattempo annuiva o negava a seconda di quello che Daniel diceva e alla fine si limitò a dire:
«No, padre…»
«Benone allora!» esclamò trionfante.
Tolse riprese i documenti riconsegnandoli a Mazim, fece salire tutti nell’auto poi con una calorosa pacca sulla spalla disse: «Mille grazie, figliolo. Buon Natale! Continua pure così che vai benissimo!»
Detto ciò sedette davanti e l’auto partì.

«Non capisco…» continuava a ripetere scrollando il capo.
Di fronte a lui un enorme tazza colma di caffé che stringeva con entrambi le mani.
«Insomma, hai mentito su tutto. Da quando sono arrivato sino ad ora…tutta la tua vita, Daniel è una menzogna!»
Nel locale c’erano solo loro, più una giovane donna dai capelli tagliati corti alla maniera di un maschio.
Se ne stava con la faccia divertita di chi assiste ad una commedia degli equivoci, seduta a gambe incrociate sullo sgabello.
Edina e Mazim bevendo la loro tazza a dei tavolini poco più lontani.
«Caspar devo spiegarti alcune cose che sono propriamente come ti aspettavi…»
«Non sei come mi aspettavo? È meglio che me ne sto zitto, sennò faccio peccato. Coraggio sentiamo…» incrociò le braccia e lo guardò diritto in faccia.
Daniel deglutì sentendosi come un bambino che doveva discolparsi di una marachella evidente.
«Innanzitutto mi avevi parlato di una chiesa. Dov’è? È questo bar? Fa schifo! Senza offesa per la signorina.»
La ragazza fece spallucce.
«Ma io ho davvero una chiesa!» affermò Daniel con forza.
«Davvero? Mostramela!»
«La mia chiesa sono le strade e i vicoli di New York e le sue piazze, i miei altari casse di legno e compensato; il mio gregge tutta la gente che vuole ascoltarmi, senza distinzione alcuna….»
Il biondo aveva inarcato un sopracciglio, poi muto era tornato al suo caffé, scuotendo di nuovo il capo.
«D'altronde…» incalzò Daniel: «è scritto anche nella Bibbia che…»
«Cosa?»
«Che non è necessario avere un tempio per…»
«Dov’è?»
«Dov’è cosa?»
«Dov’è scritta questa cosa, perché proprio io non riesco a ricordarla.»
Daniel aprì la bocca e la richiuse.
«Comunque non faccio niente di male.» aggiunse poi sorridendo in tono di scusa.
«Spacciarti per un certo Jeremy Milton, andare in giro con documenti falsi e un auto rubata, mentire al prossimo…no, certo non è niente di male. tra un po’ verrai a dirmi che hai anche ammazzato, però lo hai fatto a fin di bene!»
Daniel abbassò gli occhi colpevole.
«Tu hai ucciso!» esclamò il ragazzo con gli occhi spalancati. «Non ci posso credere! Sei un sacerdote, Daniel! Ti rendi conto di quello che vuole dire? Hai idea che cosa hai fatto? I Dieci Comandamenti! Non uccidere! Non rubare! Non dire falsa testimonianza!...»
«Si ma…»
«Ma cosa? Mentimi ancora, Daniel e ti picchio come quando eravamo in seminario e questa volta non saranno lividi!» lo minacciò il biondo con un dito.
Calò il silenzio.
Imbarazzante e freddo.
«Caspar…» mormorò Daniel sull’orlo del baratro.
«E piantala di chiamarmi Caspar! Vuoi dirmi che nessuno di loro sa nulla del tuo passato da seminarista?» sorrise sinistramente.
«Bene avrò molte cose da raccontare ai tuoi amici.
Mazim e la giovane donna gli si precipitarono accanto come fulmini, uno con una sigaretta, l’altra con una abbondante fetta di torta alle ciliege.
Daniel sospirò e si allontanò verso il retro del bar, chiudendosi violentemente la porta alle spalle.
Nel piccolo giardino sul retro sedette su una pila di mattoni lasciati lì da chissà quanto tempo.
Si accese una sigaretta.
Quel piccolo pezzo di terra era per lui un posto magico, se non si faceva caso all’odore di muffa e rifiuti che lo circondava.
Osservò con gli occhi le crepe nelle pareti, la loro forma, l’erbe verde e ribella cresciuta tra li interstizi; seguì il perimetro delle pareti: a destra e a sinistra due enormi palazzi torreggiavano minacciosi, due armigeri che vegliavano su di lui.
La cenere della sigaretta continuò a consumarsi, il fumo danzando si sollevava sino a lambirli il viso, facendoli lacrimare gli occhi.
Sbatté le palpebre ed una di esse scivolò silenziosa lungo lo zigomo e avvertì la consueta sensazione di vertigine, come se una sfera fredda lo attraversasse, partendo dalla gola sino allo stomaco e oltre fino al fondo della schiena.
Le pareti persero colore, le crepe divennero più scure, più vive, più profonde.
Dio aiutami…” più un immagine che un pensiero.

E poi altre immagini e suoni: una noce rossa priva di guscio che ruotava incessantemente su se stessa, mandando piccolissime scariche blu elettriche a danzare su di essa e nella sua corsa perdeva minuscoli pezzi con un rumore disgustoso perdendosi nel nulla attorno.
La noce ormai ridotta a poco si fermò avvampandosi di fuochi e grida, mentre due labbra rosse sussurrarono in un raschio:
«Passiflora!»

Un volto dalla pelle scura. Un rossetto rosso. Questo gli apparvero davanti, lo sguardo di Edina era angoscia e muoveva le labbra senza che ne uscissero suoni.
«E…Edina…» mormorò lui, riverso sull’erba.
Gli teneva la testa in grembo ed un mano gli slacciava il clergy.
«Dani stai bene?»
Annuì cercando di sollevarsi sui gomiti, guardò intorno alla ricerca di qualcosa, vide la sigaretta appoggiata sull’orlo dei mattoni che si spegneva silenziosamente.
«Cerchi questo?» lei gli porse il bastone.
Sorrise.
«Dolcezza quanto sono rimasto qui per terra?» la voce roca e la gola secca.
«Sono arrivata che eri già lì, sembrava avessi le convulsioni. Ho avuto paura Daniel, non era come le altre volte, tu eri…eri…» la voce quasi rotta dal pianto.
«Non è niente Edina. Ora sto bene, ho solo bisogno di acqua, o magari di un caffé.» lui abbozzò un sorriso.
«Cosa hai visto?»
«Non ne sono ancora sicuro. Sai cos’è la passiflora?»
«Un fiore. Perché?»
«Nulla.» scosse il capo e la baciò sulla tempia prendendola per mano.
«Rientriamo, ho freddo.»
E insieme varcarono la porta.