Sunday, October 28, 2007



Sono stato davvero troppo assente, ma ho avuto molto a cui pensare e molto da fare. Interrompo per ora la pubblicazione di Ez300 perchè un editore mi ha chiesto di continuare a scrivere i capitoli per un eventuale libro.
Nel frattempo eccovi un innocuo omaggio al solitario di Providence: buona lettura!

La Dama Silente

L’atrio aveva gli odori di un posto arcano. Le finestre, due ai lati e dalla forma bifora davano l’impressione di un posto quasi antico, come le nude pareti liscie e lucide come marmo, striate di venature violastre che sembravano quasi muoversi se ti lasciavi andare alla loro serpeggiante forma.

Il pavimento, un mosaico di tasselli color ambra, e ogni tassello una tonalità di ambra differenti: ora più chiaro ora più scuro.

Di fronte la parete aveva un’entrata che terminava a punta, rifinita ai bordi con una fantasia di fiori orientali.

Dalla stanza adiacente proveniva un suono vellutato, una musica trascinante, stonata e disarmonica eppure mai cacofonica ma melodica; si scorgevano ombre di danzatori che si muovevano al ritmo di quella strana aria composta da chissà chi.

Bastarono pochi passi per trovarmi all’interno di un enorme salone ottagonale dal pavimento e pareti color ocra, quasi sabbia, anche qui mille tasselli che formavano un disegno al centro della stanza, sembrava una grossa rosa rossa, ma anche uno strano occhio dalla pupilla nera; in ogni angolo otto colonne che si diapartivano dal terreno raggiungendo il soffitto a volte, e ognuna di esse aveva mille estensioni a mo’ di rami che si congiungevano verso il centro, dove un foro perfettamente circolare mostrava un cielo scuro.

Dal foro poi pendeva un grosso braciere in ottone tenuto con una grossa catena, e dall’interno si espandeva l’odore di incensi profumati.

Le ombre che si agitavano erano di centinaia di danzatori: venivano dall’oriente, dal Nord o dal Sud, i loro abiti appartenevano a mondi ed epoche diverse: gente in frac, militari in divisa, donne dalle vesti fluenti e godive frenetiche.

Ciò che attrasse la mia attenzione fu un enorme trono in ottone, cesellato con figure mitiche e bestiali, possenti e grottesche e assiso una figura ricoperta interamente da una logora veste avana, nè le mani nè il volto erano visibili, cappuccio e maniche li nascondevano interamente, si intravedevano solo i contorni chiari di quella che sembrava una maschera bianca; eppure sembrava osservare tutti e nessuno, e la sua fiera immobilità suscitò in me uno sconosciuto rispetto.

Da fuori spirava un vento caldo che agitava le tende di seta e profumava di mare.

Poi mentre ero ancora concentrato sulla figura sul trono, la musica cessò per un attimo, e tutti i danzatori si spostarono ai lati della stanza, dividendosi in due ali ben distinte, lasciando libero il centro della sala.

Cominciò allora a diffondersi una nuova melodia, prodotta solo da trombe di ottone e chiarine di bronzo, che isterica si espandeva con eguale forza, portando con sè sapori arabeschi.

E dalle file ai lati staccarsi un gruppo di odalische con veli di un verde acerbo, ognuna di esse si muoveva al ritmo della frenetca danza, con i loro fianchi lucidi; le loro movenze mi riportavano alla memoria canti e visioni di viaggiatori seduti attorno al fuoco nella notte fredda di un immenso deserto; erano rapite dalla musica e lasciavano che i loro corpi si muovessero al suono degli strumenti, senza sosta al centro della sala.

Vagamente assomigliante alla corte di un sovrano, quella scena: una corte fuori dal tempo, dove zingari danzavano con ussari e templari con mori, e su tutti sempre la severa figura ammantata che osservava silenziosa la scena in tutto il suo svolgersi.

Fu mentre i miei occhi seguivano i movimenti delle danzatrici, risalendo lungo il loro corpo, mi accorsi che una di esse mi osservava insistentemente, il suo volto era coperto dalla stessa identica seta delle altre, gli occhi profondi cangiavano colore a seconda dell’intensità della luce: da un marrone vivo passavano ad un verde profondo, lo stesso colore del muschio fresco e profumato, erano fissi su di me e sentivo indistintamente quanto mi attirassero, quanto mi avvolgessero completamente sino ad escludere tutto il resto.

Sostenni con difficoltà il contorno delle pupille che urlavano senza scalpore, sensualità e desideri malcelati; scesi allora sulle labbra che si intravedevano appena sotto il velo, labbra piccole abozzate in un mezzo sorriso complice degli occhi, il quadrato di seta terminava poco sotto il collo, lasciando scoperte le spalle dove risaltavano la forma perfetta delle clavicole che scomparivano a tratti nella pelle, immergendosi come rocce in un mare bianco e lucido.

Indossava un corpetto corto che le fasciava due piccoli seni graziosi, così preziosi celati in uno scrigno di seta lavorato a mano con dedizione e arte; la pelle bianca alla vivida luce della sala, mostrava piccole goccioline di sudore che colavano tra il solco di quei seni, come infinitesime parti di diamanti scivolavano inesorabili sino a scomparire lasciando la tracca umida del loro percorso.

Furono forse i fumi e gli incensi scoosciuti a sprofondare gli occhi e la mente in uno stato di deliquio da cui non riuscivo a liberarmi; la musica procedeva con la stessa intensità, ne carpivo a volte note, ma ero troppo concentrato sul corpo della donna per poter anche solo intuirne la melodia.

Le mani che si sollevarono a farmi cenno di avvicinarmi furono lo schiaffo in volto che mi premise di riavermi: la sala era muta e divisa, nessuno più al centro di essa, solo lei ed io, i cenni continuavano, le dita come piccole serpi mi chiamavano, il suo corpo non perdeva mai il ritmo della musica; allora avanzai, passo dopo passo, incerto e maldedstro riuscii comunque ad avvicinarmi a lei, con movimenti lenti ed eleganti anche lei mi veniva incontro, ma tutta la mia attenzione era sul suo volto e per attimo mi sembrò che si muovesse come un’apparizione fluttuante.

Sentii d’un tratto la sua gamba cingermi il fianco sinistro e tutto il mio corpo venire attirato al suo con dolce violenza e selvaggia sensaualità.

Mi ritrovai davanti a lei, incapace di tutto, la mano destra tesa a seguire i contorni del mio volto, senza toccarli, la bocca piccola ed elegante a poco dalla mia semi aperta, il sorriso sempre presente e gli occhi attenti ad ogni minima increspatura della pelle.

Ancheggiando sul mio corpo, le sue labbra si schiusero facenndosi più vicine, io la imitai e mi lasciai andare socchiudendo gli occhi e traendo un sospiro, ma tra le fessure delle papebre la vidi scansarsi e sorridere divertita.

La figura sul trono aveva giunto le mani e guardava con interesse la scena, come tutto il resto della sua corte, tutti gli occhi erano su di me, trepidanti per come mi sarei comportato, la danzatrice nel frattempo si era allontanata e volgendomi le spalle continuava a ballare dirigendosi verso il trono, e arrivata lì davanti si accasciò ai piedi dei gradini con un movimento secco nello stesso istante in cui terminava la musica.

Lì rimase immobile e silenziosa.

Ad un cenno improvviso dell’incappucciato, tutti i presenti scemarono fuori, e prima ancora che potessi fare qualunque cosa il sordo rumore del portone alle mie spalle mi avvertì che ero rimasto da solo, davanti a lui e la ballerina ai suoi piedi; allora si alzò dal suo seggio e cominciò a scendere i gradini con lentezza e stile, la donna si fece subito di lato rialzandosi, ma restando col capo chino verso il pavimento.

Allora lui le tese una mano e lei obbedì, si fecero avanti, entrambi verso di me, e quando furono a poco, la figura mi tese l’altra mano, vedevo da sotto il pesante cappuccio la maschera che avevo individuato in precedenza: bianca dai contorni abbozzati, terribile nella sua severa inespressività, ebbi paura e profondo rispetto, cominciai a temere le fattezze di lui, il suo incedere e il suo continuo silenzio.

La sua mano sfrorò la mia e con un movimento lento ma deciso la portò a prendere quella della danzatrice che rimaneva ferma e muta.

Poi che io e la donna fummo mano nella mano, la figura si fece da parte e senza darci le spalle ritornò a sedrsi sul trono.

Il portone alle nostre spalle si aprì.

Capii allora che si era aperto per noi, e tenendo lei per la mano procedetti come in un sogno ovattato, passo dopo paso, sentendo quasi i piedi di gomma, le ombre proiettate dalle torce sembravano inchinarsi al nostro passaggio, e il vento che spirava dalle finestre ci spingeva dolcemente verso l’uscita.

Non c’era più l’androne, ma una lunga scalinata che non saliva nè scendeva, ma continuava davanti sino ad una porta verde scintillante, una lunga spina dorsale bianca, ecco come mi apparivano quei gradini le cui punte rivolte verso il soffitto rilucevano intensamente.

Non incontrammo difficoltà a camminare sulla scala orizzontale e ben presto ci trovammo al cospetto della porta verde, fatta di smeraldo lucido e luminoso dalle scalfiture perfette, la donna posò il palmo della mano sulla superficie liscia e un’anta si aprì con naturalezza, rivelando di là una stanza enorme ricoperta di eleganti tende porpora rifinite con sottilissimi ghirigori di oro, grossi candelabri di argento a sei braccia erano disposti ai quattro lati, le candele blu emanavano una calda e profumata luce che era raccolta e amplificata da grandi specchi ovali alti piu di un metro e mezzo.

Il pavimento era ricoperto da tappeti pesanti e dai colori scuri, mi ricordarono gli occhi di lei, così cangianti e accoglienti.

E al centro, sulla parete di fronte un grosso letto a baldacchino in legno e ferro, dalle leggere tende di seta rossa che si agitavano in movimenti delicati, c’erano dei cuscini di seta che invitavano ad adagiarcisi sopra.

Lei tenendomi sempre per mano mi condusse ai piedi del letto e qui vi si lasciò cadere lentamente, strisciando sulla sua superficie, senza perdermi di vista un solo istante.

Con gli stessi movimenti lenti, spinto da un fuoco che cominciava a divamparmi dall’interno, strisciai al suo fianco e quando le mie mani cominciarono a sforarla lei chiuse gli occhi mentre un sorriso di benessere profondo le si delineò sulle labbra; non osai molto, giacchè la sua bellezza era tale che pensai di non volerla assalire con accenni di bestialità, ma mi limitai invece a baciarla su ogni parte della sua pelle: dalla fronte al suo piccolo ombelico così perfetto, lei gemeva e a tratti si scuoteva in brividi di piacere: era come se fossi un musicista e lei il mio strumento che pizzicando le corde giuste produceva suoni e movimenti in sintonia col mio volere.

Le baciai il petto e poi i seni ancora nascosti dal corpetto, sentii la sua mano avvolgere la mia testa come a chiedermi di rimanere lì, mentre l’altra esplorava la mia spalla solcandola di leggeri e sensuali graffi.

Quando poi le mie labbra risalirono verso le sue, esse si dischiusero teneramente accogliendomi con un lungo e desiderato bacio, fu per entrambi come dissetarsi alla fontana più pura di acqua sorgiva, come quei viaggiatori del deserto che dopo giorni di cammino si abbeverano ad un’oasi trovata sul loro cammino; tale fu il nostro bacio, lungo e semplicemente sincero.

Al termine ci guardammo occhi negli occhi, e mi parve allora di riconoscerla, la rividi circondata dalle nebbie del tempo e dell’oblio, in altri luoghi e in altri tempi: la vidi sacerdotessa; la scoprii contadina; la riconobbi come vento e in tante e tante altre forme, ma tutte erano sempre vicine a me, nel cuore, nella mente e nel corpo.

Ben presto ci colse il sonno, lei si accoccolò nell’incavo del mio braccio destro e chiuse gli occhi, io le carezzavo i capelli e il collo, ma prima che entrambi ci addormentassimo del tutto, lei prese la mia mano e vi mise qualcosa di piccolo e freddo al suo interno: un piccolo smeraldo a forma di goccia o lacrima, poi mi chiuse la mano e mi baciò un’ultima volta e lì, mentre la luce sfumava intorno a noi, ci prese il sonno, con l’ultima promessa non sussurrata che ci saremmo incontrati di nuovo tra quelle stanze o al cospetto della figura incappucciata che ci aveva benedetto entrambi col suo silenzio.

Francesco Lacava