Sunday, May 13, 2007


Ben ritornati, ho appena concluso l'ottavo capitolo, godetevelo e se vi scappa un po' di tempo, tirchi e spilorci, mettete qualche commento...

La via dell’intelletto

C’era una landa desolata intorno, dove, come denti marci, spuntavano guglie nere, sfaccettate, che al vento risuonavano di preghiere sommesse e continue.
Un cielo verde e cangiante, scendeva all’orizzonte, denso e pesante come melassa; il terreno era secco e costellato di crepe, facendolo assomigliare al volto rugoso di un vecchio.
Lui seppe con precisione che lì, su quella terra arida e scura, una volta cresceva un rigoglioso giardino, con sgargianti viti e splendidi rampicanti che correvano intorno alle guglie e grossi alberi di succosi frutti variopinti dagli odori più strani, più vivi, così pungenti che l’aria ancora sembrava conservarne un ricordo.
Senza camminare arrivò a delle enormi mura che giacevano simili ad altari di memoria antica. Sventrata e a pezzi, battuta dal vento e dal tempo, che ne avevano limato i bordi, la cinta correva in entrambi i lati sembrando voler ancora abbracciare un cerchio di terra, di là da essa.
L’opprimenza e il senso di tetritudine accrescevano avvicinandosi alle mura: un giorno molto lontano quel luogo era stato luminoso e vivo, pieno di luce e calore, ora invece rimanevano solo vecchie rovine, detriti e tanta desolante tristezza.
Questo pensò mentre oltrepassava i blocchi di pietra scura semi coperti dalla terra.
Nel mezzo della terra un albero scuro dal tronco grosso e nodoso e completamente marcio che si divideva in due tronchi più piccoli da cui scendevano i rami contorti e lunghi su entrambi i lati, dando come l’impressione di un libro aperto.
Le tre nette radici affondavano violentemente nel terreno e sul tronco in rilievo alcuni nodi erano cresciuti formando una parola:

Da’at

Ogni elemento di linfa vitale nell’albero era stato estirpato, la propria essenza violentata, eppure conservava ancora un residuo di vitalità che lo lasciava a spegnersi lentamente, prolungando l’agonia.
Ad alcuni rami erano cresciute escrescenze sferiche dai contorni gibbosi, che assomigliavano a piccoli frutti malati e scuri.
Lui percepì perfettamente il dolore continuo che l’albero emanava, un dolore antico, vecchio di secoli, che perdurava come un cancro, prolungandosi nel tempo.
Giunsero le preghiere dalle guglie, sussurri portati dal vento che lo avvolgevano completamente, erano versi melodiosi e pieni di armonia, recitati da voci così perfette nella loro estensione da non sembrare umane:

“Tra Saggezza e Intelligenza

Conoscenza risiede,

violata con violenza,

che in dono Infinito vi diede.”

Così ripetevano le voci in un ciclo senza tempo, alimentando il dolore di quel giardino appassito ormai da chissà quanto.
Qualcosa di forte, di caldo lo prese attirandolo a sé nella direzione da cui era venuto, gli fu impossibile resistere e nell’attimo in cui vide l’albero, le mura e le guglie allontanarsi capì che vi sarebbe tornato presto, perché il luogo aveva lasciato le tracce su di lui per poterlo ritrovare ancora e ancora.
Un giro lontano di musica, su scala differente, come una sinfonia stonata eseguita in una camera dalla sorprendente eco, con lentezza, quasi ad intermittenza.
«Non dovevi portarlo qui!» diceva un flauto dizi.
«E dove allora?» rispondeva un controfagotto.
«Cosa dovrei fare io?» chiedeva ancora il dizi.
«Non lo so, preparali da bere! Non vedi il sangue?»
«Per gli dei!» esclamò esausto il flauto.
«Non bestemmiare!» sembrò minacciare il controfagotto.
«Sono i miei dei e posso anche pisciarli addosso! E ora fuori di qui, tutti!» urlò il flauto.
La musica cessò e un suono liquido prese il suo posto.
Il buio era scalfito da piccole gocce di luce giallastre, così deboli e piccole da sembrare stelle lontane immerse in una immensa volta nera.
«Mmm…» il dizi mugugnò, o così parve e poi parlò velocemente in una lingua sconosciuta ma melodiosa, rise divertito ed una seconda risata più acuta, e rauca gli fece eco.
Lentamente le gocce di luce si allargarono riversandosi nel buio contaminandolo: fu doloroso per gli occhi, nel lungo lasso di tempo quello che vide fu solo una grande luce dove si agitavano figure scure, poi gli occhi misero a fuoco, e Mazim vide un ometto piccolo davanti a sé con indosso una lunga veste di raso blu che gli scendeva sino ai piedi foderati da graziosi mocassini di identico colore; aveva lunghi capelli neri raccolti in una treccia perfetta cascante sulla spalla sinistra, occhi a mandorla e un paio di baffi lunghi sino al petto.
Un piccolo pappagallo verde si dondolava sulla spalla destra, guardando a becco aperto Mazim steso su un tavolo metallico.
La camera era piena di casse a ridosso delle pareti, con ideogrammi colorati su ognuna di esse, un odore di erbe e incensi aleggiava pesante, gli occhi di Mazim corsero da un lato all’altro della stanza, cercando di capire dove si trovasse, ma non riconosceva il luogo né riusciva a capire come ci fosse arrivato.
«Per i Nove Cieli! È davvero una brutta ferita la sua: mi ricorda tanto quella che esibiva il mio camerata, riuscivo quasi a vederli i polmoni e lui era ancora vivo…hi hi hi…» rise cigolando mentre si lavava le mani in un catino, il pappagallo nel frattempo era volato su di un trespolo lisciandosi le penne in tranquillità e rispose alla risata con un’altra risata.
«Ma io non mi preoccuperei, se è ancora vivo una speranza c’è!»
“Chi è questo?” gli occhi neri di Mazim guardarono i movimenti dell’ometto che aveva messo dei guanti e preso strani attrezzi metallici che andava riscaldando sulla fiammella di un fornello da campo e li posizionava su un vassoio accanto con meticolosa cura.
«Non ci crederai mai Fei Lian, ma questo qui è ancora vivo nonostante una pallottola gli abbia trapassato lo stomaco uscendo dall’altra parte senza spappolarlo!...hi hi hi…» spiegò al pappagallo.
Mazim aprì la bocca, o quantomeno ci provò senza riuscirci, rendendosi conto che era come non avere nulla al di là degli occhi: sentiva di non sentire nessuna altra parte del corpo; il panico lo aggredì, si mosse, ma ancora non provò nessuna sensazione, il corpo era immobile, nemmeno un peso, solo il nulla.
Roteò disperato gli occhi come alla ricerca di una spiegazione ed incrociò quelli vispi dell’ometto.
«Sei sveglio! Bene, bene. Come ti senti?»
“Non posso muovermi!”
«Non capisci, eh? Devi essere ancora sotto choc! È normale, sei quasi morto…hi hi hi…»
“Imbecille non sono sotto choc, sono paralizzato!”
«Ora ti medicherò la ferita, sentirai un po’ di dolore, ma questo è un bene…» afferrò una pinza dal vassoio accanto e con essa prese una garza da un contenitore di terracotta: un odore pungente si sparse nella stanza.
“Non capisci? Non riesco a muovermi…guarda i miei occhi…cazzo…cazzo…cazzo!” pensò terrorizzato.
«Sai Fei Lian, forse dovrei addormentarlo, la medicazione è dolorosa: devo scavare all’interno, ripulirla e non credo che il ragazzo possa reggere…oppure posso aspettare che il dolore lo faccia svenire, ma sarebbe crudele, che dici?»
Il pappagallo emise un verso e continuò a dondolarsi.
«D’accordo, farò così!» rispose l’ometto al pennuto.
Lasciò la pinza scocciato e si frugò in una tasca dove estrasse un fazzoletto, lo piantò in faccia a Mazim premendolo sul suo naso:
«Respira figliolo!» disse l’uomo.
“Merda! ti prego no…qualcuno mi…”
Un profumo fresco penetrò le narici del ragazzo impedendoli di formulare altri pensieri, un attimo dopo gli occhi si incrociarono e tutto attorno perse consistenza, poi lui svenne.

Attorno a un tavolo di pietra circolare, dalla superficie molto simile ad una scacchiera, erano seduti un uomo ed una donna.
Mazim si accorse di essere su una rupe che si reggeva nel mezzo dell’aria senza appigli, un rumore di cascata proveniva dal basso, sporgendosi notò il getto di acqua che potente e libero sgorgava dalla rupe a mo’ di becco di rapace, sotto il vapore si innalzava candido, impedendoli di guardare cosa ci fosse.
Poteva muoversi!
Era a piedi scalzi, accarezzò la sensazione di fresco dell’erba soffice tra le dita: “Un sogno? Ma se quello era un sogno, allora questo cos’è?” pensò guardando intorno sconcertato.
Lontane si ergevano picchi altissimi che apparivano illusori, ammantati da cortine di nebbia così fitte da sembrare veli da palcoscenico.
“Non capisco più un cazzo: sono morto? E quelli chi sono?”
«Avvicinati.». Aveva parlato l’uomo.
La pelle scura e liscia aveva il colore del caffé macchiato e due occhi di un nero lucente; era nudo, il corpo scolpito, come anche la donna che nuda gli sorrise: stesso colore della pelle, stesso colore dei capelli…anche il volto era simile…
“Gemelli?”
Mazim avanzò verso di loro, non sembrava esserci ostilità nelle loro intenzioni, o almeno così sembrava.
C’era sul tavolo uno schema fatto con sfere colorate non più grandi di un orologio da tasca, da ognuna di esse partivano linee scure che si collegavano alle altre in un disegno ben preciso, Mazim contò nove sfere in tutto, quando fu vicino la donna puntò il dito verso la base del disegno: c’erano tre linee che partivano dalla nona sfera ma non si congiungevano a nessuna altra.
«L’albero è stato violato, Mazim.» disse la donna.
“Chi?”
«Il regno è andato perduto. E tutto è in decadenza.» rispose l’uomo.
«Il regno? L’albero? Che significa? E chi siete voi?»
«Sei tu che sei venuto, Mazim, e noi ti abbiamo accolto…» disse la donna.
«Sono morto? È così, vero?» chiese il ragazzo.
«No.» rispose la donna. «Hai solo superato la soglia della conoscenza e sei sulla strada dell’intelletto…»
«Cazzate! Non capisco una parola di quello che dite…odio i giri di parole…ditemi chi siete e cosa ci faccio qui!»
«Questo è l’albero della vita…» disse la donna indicando il disegno davanti: «Esso regge l’universo in ordine e armonia…»
«Cosa c’entra con quello che ti avevo chiesto?»
La donna guardò l’uomo seduto di fronte, poi ritornò a guardare Mazim: «Proprio non capisci, scimmia
«Scimmia?» il ragazzo parve colpito da uno schiaffo in pieno volto. «Come ti permetti, puttanella?»
«Non dovevi…» disse l’uomo alla donna. «Deve essere un araldo e ha bisogno di spiegazioni…»
«Un araldo? Lui?»
«Abbiamo avuto araldi ben peggiori…ubriaconi, schizofrenici…lui non è male, o almeno non sembra.»
«Ma di cosa parlate?» Mazim cominciava a stancarsi.
La donna tornò a guardarlo, squadrandolo da capo a piedi:
«Sei in gioco, Mazim. Dovrai informare le genti della decadenza che incombe, dirai loro che l’ultima sfera è andata perduta, la terra è contaminata dai troppi abusi e presto la fine sarà alle vostre porte…»
«La fine del mondo?»
«La fine del vostro mondo, non del Mondo.» rispose l’uomo.
«E come dovrei dire tutto questo? E soprattutto perché dovrei? Insomma è un sogno, no? Questo posto, voi due, la storia della decadenza…non ha senso…»
L’uomo e la donna si guardarono.
«Sai cosa sono le sephirot?» chiese l’uomo alla fine.
«No.» rispose Mazim.
«Araldo, vero?» disse lei sarcastica.
«Le sephirot sono chiavi che reggono l’Universo intero, manifestazioni di espressioni superne, perfette e immortali…una di esse è andata perduta, abusata…»
«E se sono perfette e immortali come ha fatto una a perdersi?»
La donna prese la parola con ovvietà rispose: «La colpa è solamente vostra. Qualunque cosa che a voi scimmie viene data, ha la capacità di distruggersi, ogni cosa che toccate si contamina e prima o poi muore
«E questa…chiave…è distrutta?» Mazim decise di stare al gioco e assecondarli, dimostrandosi interessato e partecipe, senza fregarsene realmente.
«No, è corrotta. La distruzione è però vicina…»
«E immagino che solo un uomo potrà salvarla, cioè io, vero?» domandò sorridente.
«No, non si salverà. Non c’è bisogno di eroi, quello che dovrai fare è avvisare della decadenza…»
«Ma non ha senso…!»
«Non lo deve avere, infatti. Ti limiterai ad annunciare la decadenza, perché così è stato deciso! La vostra epoca è finita, scimmie; si salveranno coloro che hanno capito e coloro che conoscono…»
«Da chi è stato deciso, da Dio?»
I due tacquero.
All’improvviso Mazim smise di divertirsi e sorridere.
«Voi non state scherzando, vero?»
L’uomo scosse il capo.
«Ma io non poso…cioè io non so nulla di Dio, non sono un cristiano…non…»
«Pensi che il tuo Dio sia differente da Quello che governa questo luogo? Forse avremmo dovuto accoglierti nel giardino delle vergini, magari avresti capito? È questa una delle cause della corruzione: voi scimmie adorate sentire il suono delle vostre parole da non ascoltare nessun altro, non vi rendete conto che dite le stesse cose.» disse lei.
«Non ci sono eletti o preferiti, Mazim, ci siete voi tutti e la vostra degenerata corsa alla perfettibilità, così sbagliata, così abusata…non esiste nemmeno punizione divina sul regno, perché avete la libertà di fare quello che più ritenete opportuno. Ed ogni conseguenza è causata dal vostro agire.»
Mazim abbassò gli occhi. Aveva perduto la sua spavalderia e la sua arroganza, ora si sentiva più nudo dei due di fronte a lui, più colpevole di quanto si fosse mai sentito in tutta la sua vita, ricordò della paralisi:
«Come farò a farmi credere? Nessuno ascolterà le mie parole…e poi…sono paralizzato, non potrò parlare, né muovermi…sono una larva…»
«E’ proprio questo il bello, Mazim.» disse la donna sorridendo: «La via dell’intelletto non è dritta e illuminata…»
«Cosa vuol dire?» chiese il ragazzo.
«Che sono solo e tutti fatti tuoi!» rispose l’uomo con lo stesso sorriso.
«Ma perché avvisare se tutto è perduto?»
«Perché non sarà la fine del mondo, ma solo un cambiamento e coloro che sperano in questo, che attendono, devono essere avvertiti che l’attesa non è stata vana e che il momento è giunto…»
«Moriranno a migliaia, innocenti…bambini, donne…»
«Solo quelli che non hanno anima…e non credere, Mazim, sono molti a non averla…troppi! Il regno deve mutare, la corruzione è metamorfosi di creazione…catarsi per nuova vita…»
«Non capisco…»
«Non c’è da capire, solo accettare!»
«Và ora! Avrai modo di ritornare…» lo rassicurò l’uomo.
«Un ultima cosa…» disse la donna: «Un uomo, un condottiero di nero, ha intrapreso la tua stessa strada.»
«E quindi?» domandò Mazim.
«Proprio non capisci vero scimmia?»
Il ragazzo sentì una pressione allo stomaco, come se le interiora volessero scappare fuori, poi la luce attorno si confuse con la nebbia.

Quando riaprì gli occhi, la sensazione era solo un ricordo lontano.
L’ometto vestito di blu lo guardava soddisfatto e sorridente dall’alto.

Wednesday, May 02, 2007


eccovi, chiaramente col solito ritardo il settimo capitolo.

Psicomachia


Quando l’auto scura sfilò per Viale Carelli, Nikla Vezenkov, seduta sul sedile posteriore, si infilò un paio di guanti di seta nera con movimenti lenti e delicati, le dita stranamente affusolate, avevano l’indice più lungo del medio. Nikla guardò fuori dal finestrino, i profondi occhi blu della stessa intensità del mare del Nord, osservarono stancamente la città all’alba ancora assonnata che appariva sulla destra. Aprì un fascicolo tenuto da clip metalliche e cominciò a leggere un telegramma:


“Ore 9:00 Capitano Burgess. STOP. Distretto 129. STOP.
Assassino a piede libero. STOP. Armato e pericoloso. STOP.”

“Perché io per un banale assassinio?” si chiese per l’ennesima volta quella giornata.
Conosceva le proprie capacità, sapeva perfettamente di essere una delle migliori investigatrici, ma conosceva bene anche i propri difetti in relazione ai piccoli delinquenti, sui quali a volte finiva per accanirsi con ferocia e sadismo.
Le sue opinioni in merito erano contrastanti, da un lato era come se si sentisse sminuita, dall’altro era quasi un privilegio che venisse contattata; persa nei propri pensieri non si accorse che l’automobile era scivolata sino alla centrale: circondata da mura elettrificate e sorvegliata come un bunker era illuminata da un raggio di sole in piena facciata.
Lei attese davanti l’ufficio del capitano sorseggiando una bevanda alla caffeina aromatizzata al cedro -una delle sue preferite- dopo interminabili minuti la porta si aprì ed apparve Burgess che le disse di accomodarsi.
«Buongiorno Sorella Vezenkov. Io sono il capitano Viktor Burgess!» allungò una mano e sorrise.
«Molto piacere.» gli rispose Nikla ricambiando la stretta.

«Gradirei conoscere il motivo per cui sono qui, capitano.»
La stanza odorava di cera per mobili, loro erano seduti ad un tavolo di ferro dalla superficie in vetro, una di fronte di fronte all’altro: Burgess muoveva le gambe nervosamente, appariva a disagio, i ciuffi di capelli grigi ai lati della testa erano ritti.
«Cosa c’è di così speciale in questo assassino?»
«In sé nulla.» rispose il capitano.
Giocherellava con un sigaro nero passandolo tra le dita: «Non è molto diverso da molti altri rei a piede libero che popolano la città. I precedenti penali ci sono: spaccio di droga, qualche rissa… ma nulla di pesante, fino all’omicidio. Le spiace se fumo?»
«Faccia pure. Vedo che conosceva la vittima…» disse lei sfogliando alcuni fogli da un fascicolo.
«Marja Ganowski. 56 anni. Per chi la conosceva un’arpia: tirchia, puntigliosa, attaccata al denaro e tremendamente scocciante, così la descrivono i condomini della palazzina di cui lei era proprietaria e dove alloggiava. Non tollerava che si camminasse con le scarpe negli appartamenti, non voleva gente estranea dopo le sette di sera; praticamente un tiranno. Non mi meraviglio che tutti gli abitanti dello stabile abbiano tirato un sospiro di sollievo e gridato al miracolo nel saperla morta.».
Sorrise.
Nikla lo guardò reclinando il capo da un lato come a carpire lo stato d’animo dell’uomo seduto di fronte.
Burgess si sentì pervadere da un brivido lungo la schiena che lo fece ritornare serio.
Si schiarì la gola.
«L’assassino si chiama Dustin Lennan. 31 anni. È stato visto allontanarsi in compagnia di una donna, una cantante da night: Sophie Eis, di anni 25. Sembra sia la sua donna, a quanto ci ha detto il barista dove lei lavorava. Sono riusciti ad eludere i posti di blocco dei miliziani.»
«Capitano non ha ancora risposto alla mia domanda. Perché io?»
«Conosce Leopuld Wajskorg?»
Nikla accennò un sorriso, forse il primo sincero di quella mattina: “Ecco perché io!”
«Il barone Absinth!» affermò.
Burgess annuì: «Cosa sa di lui?»
«In realtà molto poco. Un filantropo, un eccentrico e soprattutto un megalomane. Ha costruito il suo impero come designer di interni e giardini, il suo marchio è molto famoso, e ha agganci ovunque. Non si vede mai al di fuori della sua villa. Corrono voci di un mercato nero controllato da lui che si dice venga aperto nella sua casa di tanto in tanto; ma non si è mai trovato nulla, anche a causa delle coperture di cui gode. Che collegamento ci sarebbe tra lui e questo Lennan?»
«Pare che la coppietta abbia trovato rifugio da lui e che si stia muovendo affinché Lennan e la sua svampita possano varcare i Cancelli!»
«Coraggioso da parte sua. Ha già chiesto i permessi?»
«In un certo senso. Ha inoltrato domanda solo per lui e sua figlia…»
«Cosa ci fa pensare che Lennan e la Eis siano effettivamente da Absinth?»
«Il maggiordomo di Wajskorg!»
«Una spia?» chiese disgustata.
«Un lungimirante!» precisò l’uomo. «Si è presentato qui di sua spontanea volontà, fornendoci le notizie di cui avevamo bisogno.»
«Cosa ha chiesto in cambio?»
«Le solite cose che chiede uno nella sua posizione: copertura.»
«Capitano lei si rende conto che Absinth è intoccabile, e la sua fedina penale appare più pulita del sagrato di una chiesa?»
«Certamente, ma non è lui che vogliamo, né tanto meno la donna. Ci basta mettere le mani su Lennan…»
«Per quale motivo state cercando disperatamente di arrestare quell’uomo? D'altronde lo ha detto lei: non è tanto diverso da tanti criminali a piede libero a cui la polizia ha smesso di dare la caccia…»
«Io non so per quale motivo lei sia stata chiamata, sorella, ma la protezione dei cittadini è indispensabile.» disse lui tergiversando.
«Mi nasconde qualcosa capitano!» non era stata una domanda, ma una affermazione.
Burgess parve congelarsi, si irrigidì divenendo paonazzo, i capelli si drizzarono nuovamente come sotto una scossa elettrica.
«Io…io non sono tenuto a…» balbettò l’uomo.
«Capitano Burgess, la smetta con questa buffonata!» tuonò Nikla affilando lo sguardo, divenuto freddo e penetrante: «Sono una Sorella una della Rendenzione, sa perfettamente che sentiamo una menzogna come fosse un comune odore…e lei puzza
L’uomo era terrorizzato dallo sguardo della donna, non sembrava essere accusatore , ma piuttosto pareva conoscere perfettamente ogni sua debolezza, mostrandola come merce in vendita, si sentì nudo, violentato, umiliato, come se improvvisamente tutto il mondo conoscesse il suo segreto; un bambino preso in fallo…e alla fine cedette abbassando gli occhi:
«Harry Wings.» mormorò a bassa voce.
«Perché?» chiese lei.
«Non so precisamente perché, ma sembra che voglia danneggiare la figura di Wajskorg con uno scandalo pubblico, e far sapere che dava copertura ad un assassino è sufficiente per screditarlo dinanzi all’opinione pubblica, e renderebbe noi più popolari!»
«Popolari?»
«Gli episodi di violenza che si stanno verificando in città: la gente impazzisce a caso da un momento all’altro e aggredisce quanti li stanno attorno. Noi siamo incapaci anche solo di trovare una spiegazione, nemmeno i militari con il loro coprifuoco possono fare qualcosa; i cittadini non si sentono protetti…»
«Giochi politici!» esclamò scocciata. «Sono qui per semplici giochi politici!» si alzò senza togliere gli occhi di dosso al capitano: «Vi consegnerò Lennan, capitano, così potrete continuare il gioco delle apparenze con Wings, ma è bene che pensi chi è lei e cosa rappresenta…non giudicherò né accuserò nessuno, ma le consiglio un profondo esame di coscienza: il vostro comportamento è anche causa di questa situazione! E ora se vuole riferirmi l’ora della missione…»
«Le otto.» rispose afflitto Burgess «La verranno a prendere i miei uomini…»
«Bene allora: le auguro una buona giornata!»
Detto questo uscì, lasciando il capitano afflosciato sulla sedia, svuotato e stordito.

Attese la sera in una camera pensione consultando tutte le informazioni su Absinth che aveva a disposizione, in una vecchia foto il barone era seduto ad una sedia, forse ad un bar, appariva più magro, ma con il solito panama calato di lato ed un paio di occhiali da sole esagonali.
Qual è il tuo segreto Absinth? Cosa c’è dietro a quegli occhiali?”

Alle otto in punto si ritrovò nuovamente di fronte a Burgess.
L’odore della cera per mobili impregnava la stanza aderendo alle mura come carta da parati, il capitano sedeva con uno sguardo torvo, sul difensivo; il sigaro, forse lo stesso osservò lei, gli dondolava tra le labbra, consumato, spento e riacceso più volte.
«Siamo pronti Sorella Vezenkov. I miei uomini la aspettano nel cortile.» disse lui.
«Molto bene capitano, li raggiungerò subito. Ha qualcosa da dirmi?»
«Solo si ricordi di non nuocere ad Absinth. È Lennan ad interessarci…»
«Non tema. Risparmierò Wajskorg, ma non le prometto un lavoro pulito. Cercherò anche di riportare i suoi uomini…vivi!» esclamò sarcastica andando via.

«La casa è illuminata. Il giardino è deserto e non sembra ci siano sistemi di allarme di nessun tipo. I cancelli hanno chiusure metalliche attivabili solo dall’interno della villa, ma il nostro contatto le aprirà dopo cena.» disse l’agente dai denti storti. «Come vogliamo procedere?» chiese l’agente carino. «Perchè dopo cena?» chiese Nikla ignorando la domanda. «Il maggiordomo ha richiesto che il suo padrone finisse la cena prima della nostra visita, non so per quale assurda regola di etichetta, e il capitano ha acconsentito.» rise divertito. Nikla rispose al sorriso senza trovare per nulla divertente quello che aveva detto l’agente, guardandoli si chiese per quale motivo Burgess avesse scelto loro: “Sono armati con fucili e inibitori, sono armati, ma sono quattro…deve avere davvero tanta fiducia nella buona riuscita di questa missione..” Disposti accanto a lei, gli agenti indossavano una uniforme grigio scuro ed un casco dalla visiera sollevata, erano tesi, nervosi, uno di loro non faceva che accendere una sigaretta dietro l’altra guardandosi intorno come una preda. «Forse nevicherà ancora!» esclamò uno degli agenti. Nikla guardò il cielo e annuì, la sera era scesa ma un velo chiaro lo ricopriva dandoli un colorito chiaro e malato. Con devozione indossò i guanti, poi dalla tasca interna del pastrano estrasse un ciondolo di legno, rappresentava un tau, mormorò qualcosa in silenzio, lo baciò delicatamente e lo mise al collo, cominciò a sgombrare la mente da ogni pensiero. Non ci mise molto. Improvvisamente percepì le quattro menti attorno: lesse le intenzioni, le paure, le speranze, erano fari luminosi a cui lei era irrimediabilmente attratta. Lasciò i quattro e riconcentrò sulla villa. Si scorgevano solo i piani superiori, lì non c’erano finestre illuminate, ma si percepivano perfettamente gli inquilini all’interno: quattro menti pensanti, probabilmente a cena nella stessa stanza; le risultava difficile concentrarsi per un periodo superiore a dieci secondi, qualcosa – o qualcuno?- schermava la casa, “Absinth!” «Bene.» esclamò Nikla. «Aspetteremo che vengano aperti i cancelli. Calatevi le visiere e non fate gli eroi una volta là dentro, ricordate che non un proiettile dovrà essere sparato, intesi?» Gli agenti annuirono. Attesero per altri quaranta minuti, poi Nikla sentì che le menti nella casa si separavano, la più forte scomparve del tutto, due restarono lì dove si trovavano ed una lentamente uscì nel giardino e cominciò ad avvicinarsi ai cancelli molto lentamente. “Eccolo! Ha paura, tanta paura!” Ci fu un rumore oltre la parete di fronte, poi un’anta si aprì, si intravide una mano, poi un volto: apparve un uomo dal volto serio, capelli tirati indietro e lucidi di olio. «Ce ne hai messo di tempo!» disse uno degli agenti. Nikla lo fulminò con un’occhiata e lui si ammutolì. George fece cenno di entrare, non guardò mai nessuno diretto in volto: «Dobbiamo fare presto, il barone a quest’ora saprà perfettamente della vostra presenza.» Entrarono. Il cancello venne accostato, George passò davanti a loro e camminò verso la casa. Nikla osservò le siepi che li circondavano, erano belle e perfette nelle loro forme: stelle, sfere , cubi… L’edificio giallo si stagliava a poche decine di metri, quando furono davanti alla porta con l’iscrizione si bloccarono, George si rivolse a loro: «La porta laterale è aperta se volete potete usare quella…» il tono buio e cupo di pentimento e rancore lo avvolgevano come una pesante cappa. «Non ce ne bisogno.» disse Nikla. «Rientra in casa, noi ti raggiungeremo a breve!» Incerto l’uomo guardò tutti poi sparì nel buio giardino a destra. Nikla ad occhi chiusi, respirò con il naso ed espirò con la bocca, alzò gli occhi verso il primo piano, la parte più alta, come una torretta, dominava silenziosa e scura. «Quando siete pronti, puntate gli inibitori contro la porta e al mio segnale sparate: l’onda d’urto dovrebbe essere sufficiente a spazzarla via!» «Perché non entrare dalla porta laterale e sfruttare l’effetto sorpresa?» «Il capitano vuole una retata sensazionale che faccia notizia e noi faremo così!» rispose Nikla. “Anche se è un’idiozia!” Gli agenti ubbidirono. «Che cosa c’è scritto lì sopra?» chiese uno dei quattro. «E’ latino: bussate e vi sarà aperto.» “Anche sarcasticamente colto il nostro Wajskorg…” pensò con una punta di ammirazione. «Che coglione!» sentenziò un altro. «Nessuno mi sembra ha chiesto il tuo parere, e non mi aspetto che un agente possa capire, quindi fai una migliore figura a tenere la bocca chiusa ed eseguire gli ordini!» Ritornò il silenzio. Si misero in posizione uno accanto all’altro puntando le piccole scatole nere tenendole dall’impugnatura, lei attese qualche secondo poi fece un cenno col capo ed un ronzio simile a quello degli insetti partì dagli inibitori, notò un lieve spostamento d’aria, poi la porta si piegò verso l’interno ed esplose, con un rumore sordo. “E’ fatta!” Entrarono di corsa, ritrovandosi in un atrio luminoso con un’apertura verso un salone, «A destra!» ordinò secca lei. Gli agenti la seguirono per un corridoio fino ad una stanza, lei si fermò e indicò l’interno, gli agenti irruppero nella sala gridando ordini, lei li seguì subito dietro. “Absinth non è lì con loro…” In effetti c’erano solo Lennan e la donna, erano attorno ad un divanetto rosso scarlatto, un piccolo tavolo li divideva dagli agenti, alle pareti scene triviali di baccanali erano dipinti con raffinatezza e stile. «Dustin Lennan, la dichiaro in arresto per l’omicidio di Marja Ganowski.» disse secca Nikla. Notò lo sgomento nel volto della donna e la sorpresa in quella di lui. Lui si alzò e in un lampo, portando la mano al fianco, estrasse la pistola e fece fuoco verso uno degli agenti colpendolo all’addome, il ragazzo cadde come un sacco senza dire una parola.
Un altro agente fece fuoco con l’inibitore e Dustin, colpito in pieno petto, cadde riverso sul divano privo di sensi.
«No!» urlò Sophie soccorrendolo.
«Metteteli le manette! Lei, signorina, si tolga dai piedi!»
“Absinth…” lo avvertì alla destra.
«Questa effrazione domiciliare è disdicevole! Chi siete? Esigo una spiegazione!» la voce del barone non sembrava più tanto tranquilla, era senza occhiali, gli occhi erano iniettati di sangue e gonfi, le pupille chiare apparivano in contrasto con l’arrossamento della cornea; gli agenti gli puntarono contro le armi.
Nikla fece cenno di abbassarle: «Barone Wajskorg, non siamo qui per lei, ma per Lennan, ora si faccia da parte e non si immischi con la legge…o dovremmo arrestare anche lei!»
«Me?!» esclamò incredulo. «Può farlo certamente, a patto che lei e i suoi segugi abbiate soldi sufficienti per ripagarmi dei danni morali che vi chiederò quando vi avrò fatto causa vincendola!»
«Barone, quest’uomo è accusato di omicidio!»
«Quest’uomo è mio ospite! E non permetto che i miei ospiti vengano trattati così in casa mia, e ora fuori!»
«E’ fortunato se non la arresto per complicità.»
«Uscite fuori di qui!»
«Lei non si rende conto con chi sta parlando. Non sono un poliziotto, sono…»
«Una Sorella della Redenzione, so bene chi è lei, pur non avendola mai conosciuta, non posso dire piacere di averla conosciuta e non provi ad usare i trucchi del pentimento su di me, sorella, non sono uno sprovveduto.»
«Tu!» disse Nikla ad un agente. «Porta l’auto all’entrata della casa e chiama un’ambulanza per il collega.»
L’agente si avviò verso la porta.
«Non muoverti di un passo!» disse Absinth con voce profonda.
L’uomo si bloccò irrigidendosi, incapace di muoversi.
«Lo lasci andare, barone. Il ragazzo non c’entra, sta svolgendo solo il suo lavoro. Sia ragionevole, non siamo qui per lei, né per la donna…ci serve solo Lennan…» la voce della donna divenne dolce e accomodante: «Sicuramente questo lei lo capisce, barone…sento che non sta bene, questo mal di testa la divora, e agitarsi le farà aumentare solo il dolore, vero?»
Absinth urlò di dolore portandosi le mani agli occhi, sentì i nervi del collo e del cranio infiammarsi, cercò di reagire ma la vista gli si appannava, cercò la mene di Nikla, la trovò e si scagliò contro come un ariete, ma lei resistette e contraccambiò l’urto; il barone si accasciò e rimase fermo sul pavimento immobile.
«Maledetta puttana!» le urlò contro Sophie scagliandosi contro con le mani chiuse ad artiglio, lei la intercettò e le sferrò un pugno allo stomaco, facendola boccheggiare, poi tolse l’inibitore dalle mani dell’agente fermo e le sparò diretta sulla nuca.
Si asciugò il sudore dalla fronte ritornando calma. «Sto ancora aspettando l’auto e l’ambulanza!» disse rivolta agli agenti. «Cerchiamo di non fare giorno!».