Thursday, March 05, 2009



Ben ritrovati a tutti voi. Vi propongo un racconto ispirato da un fatto, a detta di chi me lo ha esposto, realmente accaduto.
Buona lettura

La lapide


Lasciato il piccolo paese alle spalle, le due bambine corsero lungo la strada che scendeva il basso colle, aveva fatto caldo anche quella pigra mattina di fine aprile; ora una leggera brezza piacevole, muovendo i rami degli sparuti pini, sembrava accompagnare il gioco del primo pomeriggio.

Lontano all’orizzonte, delle nuvole scure presagivano forse un temporale, ma erano così distanti che sembravano non essere nemmeno vere.

Era l’ora in cui tutto si ferma, l’ora del giorno in cui la gente, dopo pranzo, andava a riposare dalle fatiche per qualche ora, quel periodo di tempo che il paese e la campagna tutta scivola in un silenzio digestivo, e solo gli uccelli ciarlano senza sosta.

Le bambine si fermarono.

Guardando attorno nella campagna, i colori cominciavano ad essere più vivi, dai campi al cielo, dagli alberi alle nuvole, ricreando ancora una volta la fervida atmosfera primaverile.

C’era, di fronte a loro, la strada a sterro che dritta proseguiva fino al paese più vicino, da lì era possibile distinguerne i contorni, tremolanti nella forte luce del primo pomeriggio.

Le bambine si sentivano padrone della loro vita e del loro destino, in quell’arco di tempo nessuno poteva comandarle, nessuno a dirle cosa e quando fare qualcosa, erano libere da tutto, e sarebbero rimaste così per sempre.

«Che facciamo?» chiese la prima bambina.

«Possiamo andare lì!» indicò col braccio il paese.

«Ma sei scema?» trasalì la prima. «Non possiamo allontanarci tanto. Tua mamma ha detto che dobbiamo restare vicine a casa.»

«Ma chi se ne frega? E poi mamma non è qui a vedere quello che stiamo facendo, no?» corse in avanti trotterellando velocemente.

«Dai, aspettami Angela!».

Una serie di alti cespugli spinosi, accompagnavano su ambo i lati la strada sterrata.

«Guarda quante more, Lucia!» esclamò Angela esultante. «Vieni, raccogliamone un po’.»

«E se poi ci fanno male? Come sai che non sono velenose?» rispose l’altra mettendosi alle spalle con le braccia conserte ed un broncio privo di convinzione.

«Come fanno ad essere velenose? E poi le ho mangiate tante volte, sono le stesse che ci sono in campagna da mio padre.»

La bambina restò ancora qualche attimo titubante, mordendosi l’interno della guancia, poi si lasciò convincere.

Affiancò Angela e cominciò a raccogliere le more anche lei.

«Stai attenta, ci sono le spine, ed è facile pungersi…»

«Ahia!»

«Appunto!… Cretina…» rise.

Man mano che venivano raccolte, quelle che non venivano mangiate, finivano nell’incavo della gonna di entrambe. Trascorsero una ventina di minuti abbondanti, e il loro bottino ammontava a circa una trentina di piccole more, alcune rosso scuro altre nere, morbide e profumate.

Stanche della raccolta, continuarono ad avanzare lungo la strada, che poco più avanti curvava verso destra, i cespugli ne nascondevano la fine, ed era come se quel posto non appartenesse a quella zona.

Tenendo con entrambe le mani i lembi della gonna che già si macchiava di un rosso cupo, come piccole gocce di sangue, le bambine camminavano una accanto a l’altra.

«Ma tu c’eri mai venuta qui?» chiese Angela.

«No.» rispose Lucia.

Sopra le loro teste le nuvole, quelle più basse, correvano velocemente, alcune nascosero il sole per qualche attimo, lasciando la campagna in una sospesa luminosità più scura della precedente.

Giunsero oltre la curva, seguendo sempre la strada:

«La vuoi vedere una cosa?» chiese Angela.

«Cosa?»

«Vedi quella pietra che si trova lì?» indicò una lastra grigia a qualche metro da loro.

«Che cos’è?» chiese immediatamente Lucia.

«Vai a vedere…» rispose maliziosamente la bambina.

«Perché?»

«Vai a vedere!» ripeté nello stesso tono Angela.

La bambina distanziò l’amichetta accelerando il passo, quando si trovò proprio di fronte alla lastra sgranò gli occhi sbalordita: «E’ una tomba!» esclamò rivolgendosi verso Angela, sul cui volto si era dipinta un espressione di soddisfazione.

La bambina annuì, come chi la sa lunga.

«Di chi è? Non si riesce a leggere il nome.»

«Però c’è una foto!» rispose mettendosi accanto a lei.

La sottile e bassa lastra di pietra grigia, eretta sul bordo della strada, aveva un aspetto sbiadito ed eroso, come se fosse stata posta lì da chissà quanto, esposta al tempo e ai suoi naturali capricci.

Una foto laccata e screpolata avvisava che commemorava un sacerdote, magro, occhialuto e dalle orecchie vagamente larghe, nel complesso non un bell’uomo, ma sicuramente un uomo buono: lo sguardo sereno e pacato di un prete di campagna.

«E’ un prete!» disse Lucia. «Lo conosci?»

Angela fece cenno di no col capo: «Mamma mi ha detto che era il nostro prete e dell’altro paese tanti anni fa. Che faceva avanti e indietro mattina e sera per dire messa. Un giorno sembra sia morto proprio qui, ma non mi ha detto perché.»

Lucia tornò a guardare la foto, ma non ebbe coraggio di dire nulla.

«Fa paura…» disse in un bisbiglio qualche attimo dopo.

«Scema!» la canzonò Angela. «E’ solo una foto. Non c’è niente lì sotto. Anche se fosse, come dice sempre mamma: “E’ dei vivi che devi avere paura, non dei morti!”»

Lucia deglutì.

Aveva ragione, ma non poteva evitare di provare una strana sensazione di disagio che la infastidiva.

Fu la prima a percepire uno strano e pungete odore, dolciastro e nauseante.

Si voltò mentre Angela si era sporta dietro la lapide a raccogliere un fiore di campagna da deporre alla sua base.

Si bloccò immediatamente, dando una leggera gomitata alla sua amica.

«Cosa c’è?» chiese Angela, guardandola.

Lucia fissando davanti fece cenno col capo diritto di fronte a loro.

Ad una distanza di qualche metro, sul ciglio opposto della strada, un grosso cane nero, sbucò lento e silenzioso dal folto cespuglio di more.

L’animale, dal pelo corto e scuro, aveva lunghe zampe muscolose piantate per terra ed un corpo lucido, il muso pareva schiacciato, corte orecchie e due occhi che rilucevano malignamente e che fissavano attentamente le due bambine; il lato destro del muso era leggermente sollevato, lasciando scoperto una fila di denti aguzzi, mentre un filo di bava trasparente e densa come melassa gli scendeva lungo la parte inferiore del muso.

Non aveva collare e non sembrava fosse lì per mettersi a giocare con le bambine.

Terrorizzate, Angela e Lucia, fecero qualche passo indietro, lasciando cadere le more dalle gonne, mentre il molosso ne fece uno avanti, ringhiando sommessamente.

Non faceva rumore calpestando il terreno, ogni suo passo sembrava soffice e irreale.

«Che…che facciamo?» chiese Lucia terrorizzata come mai prima d’ora.

«Non muoverti veloce. Dammi la mano!»

Lucia strinse la propria in quella di Angela.

«Ora ci muoviamo di lato, ma piano, va bene?»

Lucia annuì, e già qualche lacrima faceva capolino dai suoi occhi.

Si mossero.

Prima un piede.

Poi un altro.

Lo stesso fece il cane, tenendole ancora sotto gli occhi.

C’erano delle mosche che gli ronzavano attorno, ma l’animale non sembrava interessarsene, troppo preso dalle due bambine davanti.

Mentre camminavano lentamente di lato, qualcosa di piccolo e leggero colpì la spalla di Angela, cadendo poi per terra ai suoi piedi.

La bambina d’istinto chinò la testa, un piccolo pietrisco si trovava proprio accanto a lei nella strada di terra battuta.

Un secondo pietrisco, andò a colpirla sulla testa.

E subito dopo un terzo.

Lentamente roteò la testa nella direzione: dietro la lapide, una figura umana alta e magra, vestita di una lunga veste nera.

Il volto magro e severo era incorniciato da un paio di occhiali, le labbra sottili, ferme come marmo.

Anche il cane parve accorgersi della figura.

Ringhiò forte, digrignando le zanne irrealmente lunghe.

Fu sufficiente per Angela.

Con uno strattone deciso, stringendo la mano di Lucia scartò di lato e corse a perdifiato nella direzione da cui erano venute.

Nell’attimo prima di voltarsi del tutto, con la coda dell’occhio, Angela vide il grosso cane nero balzare veloce, ferocemente contro la figura, con un ringhio agghiacciante, che sembrava quasi non appartenere a questo mondo.

Poi Lucia che urlava e che le diceva di continuare a correre la costrinsero a tenere gli occhi sulla strada.

Solo dopo che ebbero girato la curva, Angela si fermò di botto, e guardando nella direzione della lapide, curiosa di capire che cosa fosse accaduto.

Era lì.

Tutto era scomparso e non c’era traccia alcuna del cane o della figura in nero.

Tra il respiro affannato e la saliva da buttare giù, la bambina spaventata si rivolse verso l’amica:

«Andiamo via!» disse in un tono duro che sembrava non ammettere repliche…



1 Comments:

Anonymous Anonymous said...

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11:15 AM  

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