Tuesday, April 03, 2007


Ave atque vale! Vi presento un nuovo capitolo di un qualcosa che non ha ancora un titolo nel suo insieme. Ancora una volta, buona lettura!

Overture di una fuga

«Ho bisogno di un drink. George, saresti così gentile da portarmi un cuore di aspide?»
George annuì brevemente, sparendo dentro la casa.
Erano seduti in veranda, Absinth, Dustin e Sophie, sotto un gazebo in salice dai motivi arzigogolati, l’aria fresca sembrava elettrica e frizzante e odorava di freddo e neve, tutto intorno il manto bianco ricopriva, omogeneo, il giardino; lontane, le siepi giganteggiavano come monoliti di epoche passate.
«La polizia ti sta cercando, Dustin, come supponevo. Hanno rovistato il tuo appartamento da cima a fondo alla ricerca di non so che, forse della tua testimonianza di accusa….L’unica cosa che sono riusciti a trovare sono le palle di oppio che tenevi nascoste, e forse per questo ci rimarrei male…ma l’oppio di questi tempi è comune come le cattive maniere e l’ignoranza, e non me ne rammaricherei più di tanto.».
Quella mattina aveva cambiato occhiali da sole: piccoli e tondi di un verde intenso, sembravano aderire perfettamente alle cavità orbitali, il solito panama calato di lato.
«Sanno dove siamo?» chiese Sophie ansiosa.
«Certamente no, mia cara. Che domande!» sorrise coprendosi la bocca con le mani. «Sono andati anche al giornale, nella speranza magari di trovarti lì, ma hanno fallito, per il resto, mio caro, non so dirti altro.»
«Come buttare nel cesso un’intera vita!» esclamò Dustin sconsolato.
«Chi se ne frega?» sbottò lei. «Tesoro, non è questo il problema, capisci? Hai la polizia che ti da la caccia, probabilmente a breve anche i miliziani saranno sulle tue tracce…»
«La signorina Sophie ha ragione» rispose Absinth. «Mi spiace dirlo, Dustin, ma tu non hai più una vita!» precisò serio.
George tornò poco dopo con un vassoio ed un bicchiere a cono rovesciato, dentro, un liquido rosso pompelmo denso, ed un fiore di cristallo blu che sporgeva dal bordo.
«Grazie George. Voi non prendete niente? Avanti è maleducazione rifiutare qualcosa che viene offerto…su, su…coraggio! Vi assicuro che è tutto gratis!»
I due si scambiarono un’occhiata.
«Un caffé!» disse Dustin.
«Non saprei…»
«Avete mai assaggiato l’assenzio, Sophie?» chiese Absinth girando il fiore di cristallo nel bicchiere.
«No…» rispose lei dispiaciuta.
«Perfetto allora!» si illuminò in volto. «George, porta alla signorina Sophie un Pontarlier ed un caffé a Dustin. Grazie.»
George annuì silenzioso e tornò nella casa, tornando subito dopo con quello che era stato ordinato per poi mettersi alle spalle del barone, fermo come un mastino.
«Il bere è un aspetto particolare della vita.» cominciò Absinth: «In esso sono racchiusi elementi come società, comunione, amicizia, sia elementi come memoria, riflessione, solitudine; e tutti questi elementi si combinano assieme.
«Il drink, berlo, assaporarlo, è un rituale che richiede gesti lenti e precisi. Tenete in mano quel Pontarlier, signorina Sophie, guardate come il sole pallido riflette dentro di esso. Quando reggete tra le mani un bicchiere con un alcolico è come se reggeste parte del mondo stesso…» i movimenti del barone erano cerimoniali. Bevve il cuore di aspide e socchiuse gli occhi in estasi.
«Il drink è come un buon libro: prima di gustarlo, bisogna osservarlo, conoscerlo…»
Bevve un’altra piccola sorsata, appoggiandosi poi con le spalle alla sedia.
«Bere è un’arte, non un abitudine! Di questi tempi purtroppo sembra essere di moda il contrario: la gente beve perché si annoia, è triste, soffre e ritiene più facile perdersi nei paradisi etilici.»
Dal fondo del giardino giunse il verso di un pavone chiuso in una grande gabbia rossa che sembrava illuminata da un sole più forte di quello che splendeva in cielo.
«Coraggio signorina Sophie!» continuò poi Absinth con la voce nasale: «Bevete!»
Sophie obbedì portando alle labbra il piccolo bicchiere, un forte odore di mandorle e anice si sprigionava dalla bevanda verde, il sapore era forte e le si fece strada nella gola come un masso incandescente. Per un attimo perse il fiato e con la coda dell’occhio vide Dustin sorridere.
«Sarebbe ora che cominciassimo a pianificare la nostra fuga, Absinth.» disse Dustin. «Quali strade prendere e soprattutto come uscire dai cancelli.»
«Credete nei sogni?» chiese il barone come se non avesse sentito quanto era stato appena detto.
«In che senso?» chiese Sophie posando il bicchiere sul tavolo, sentiva la testa leggera.
«Non parlo dei sogni ad occhi aperti, miei tesori, ma di quelli che si fanno dormendo…»
I due ospiti si scambiarono un’occhiata.
«Sono poche ormai le persone che riescono a sognare, e ancora di meno quelle che riescono a dormire…il nostro mondo è alla deriva, ma vi risparmierò tutti questi discorsi pleonastici, data l’ovvietà della situazione.»
Tornò a sorseggiare il cuore di aspide.
«Io sono una di quelle persone che ormai non sogna più, nonostante dorma tranquillamente e senza bisogno di farmaci o palliativi, l’ultimo sogno risale a circa un anno, eppure due notti fa è accaduto qualcosa, non era propriamente un sogno, la definirei più una sensazione. Sì, ho avuto la sensazione viva di una sventura, non saprei come spiegarvi, ma è così…ma comunque…» si rivolse a George facendoli un lieve cenno, Absinth sembrava aver perduto per un attimo la sua calma e il suo sorriso.
«Fa freddo. Venite dentro.»
«Quello che vi servirà si trova qui.»
C’erano due borse di tela nera messe sul tavolo basso del salotto, Absinth ne aprì una tirando fuori un involucro trasparente dalla forma e dimensione di una mattonella.
«Questo è tabacco puro, non ancora lavorato. Una primizia ed un privilegio di questi tempi: vi sarà utile…Il baratto è la principale forma di scambio fuori dai cancelli di questi tempi, almeno nelle aree tra un centro ed un altro. Nessuno di voi è mai stato fuori da un centro? Io sì e quindi vi fiderete di tutto quello che dico! Vi accompagneremo noi, George ha consegnato le richieste questa mattina ad un amico al municipio, tempo due giorni e avremmo i permessi, anche il vostro signorina Sophie!»
Sophie spalancò gli occhi confusa.
«Nessuno sospetta di voi, e nascondere una persona poi è già abbastanza difficile!» esclamò.
«Nascondere?» il tono di Dustin era preoccupato.
«Non preoccuparti di questo caro!» riprese Absinth vagamente scocciato dall’interruzione: «Quello che interessa a te è rimanere fermo e zitto il più tempo possibile appena partiti e sopravvivere per non lasciare sola la cara Sophie, al resto ci penso io!»
«Quanto tempo dovremmo aspettare prima di partire?» chiese Dustin prendendo dalle mani del barone l’involucro col tabacco e osservandolo.
«Poco spero! Credo non più di due giorni…» si fermò un attimo carezzandosi il mento guardando altrove: «Sì ad occhio e croce due giorni, il mio amico è efficiente!»

Trascorsero tre giorni in un insopportabile clima di tensione e paura, Dustin e Sophie avevano la sensazione di trovarsi sospesi su un baratro da un sottile e fragile filo di cotone: qualunque cosa, qualunque pensiero o movimento dava loro l’impressione di pericolo.
Le sirene delle auto della polizia che sentivano lontane, sembravano che si avvicinassero per loro…
George andava e veniva dalla casa, usciva la mattina presto e tornava solo nel pomeriggio senza mai dire una parola, i suoi occhi scuri, vigili erano sempre in movimento.
Absinth cercava di non far pesare la situazione già sufficientemente tesa: nelle ore in cui non era recluso nelle sue stanze, si intratteneva con Sophie, mostrandole i fiori che lui stesso curava nella splendida serra, o discuteva con Dustin di alcuni particolari del viaggio.

Il pomeriggio seguente il barone mostrò a Dustin una automobile color ruggine: il portabagagli più alto del normale e la carrozzeria era stata truccata in più punti dando l’impressione di un piccolo carro armato, il cofano poi era stato fuso col il paraurti assumendo perfettamente la forma del becco di un rapace.
«Questa auto…», spiegò Absinth pieno di orgoglio, «E’ un vero capolavoro d’arte. Personalmente me ne intendo poco di motori, dato che sono poco avvezzo alla meccanica, come saprai, ma questa è indubbiamente opera di un genio. Conosci Roscow?»
Dustin scosse il capo.
«Era un generale dell’esercito prima della Guerra: un genio della tattica militare e negli assalti di terra, fu lui a guidare il 4° reggimento durante la rivolta del ’20, guadagnandosi una medaglia al valore in cambio solamente di entrambe le gambe a causa di una granata.
«Questo evento produsse nel grand’uomo una crisi, una sorta di confusione, come da manuale, crisi che sfociò in diserzione. Roscow rifiutò l’assistenza che il Governo riserva ai veterani mutilati e si congedò, non accettò nemmeno le protesi. Si ritirò in preda alla depressione e alla sfiducia verso il sistema. Sotto le sue indicazioni venne costruita questa auto, priva di pedali; il suo progetto era uscire dai Cancelli per allontanarsi dalla follia e dall’orrore che lo circondava e che aveva esatto le sue gambe…»
«E tu sei riuscito ad impossessarti di questa cosa: come ci sei riuscito?»
Portandosi la mano alle labbra sorrise, muovendo le spalle:
«Oh, mo caro continui ancora a sottovalutarmi?»

A cena quella sera si ritrovarono nella grande sala da pranzo affrescata, il fuoco nel camino bianco mandava lampi e guizzi luminosi che sembravano dare vita ai dipinti di caccia sulle pareti.
George servì una crema che odorava di funghi e spezie, poi si mise di lato.
«Abbiamo i permessi!» disse freddo, il sorriso un po’ smorto o forzato, aveva mal di testa quella sera e l’unica cosa che voleva era che la cena finisse per poter rimanere da solo.
Porse una busta gialla a Sophie: «Qui dentro ci sono anche documenti della tua nuova identità: sarete Sophie Absinth, mia figlia tornata dal collegio…cercate di essere convincente, parlate solo se necessario e tutto andrà per il verso giusto.»
«E se non funzionerà?»
«La stragrande maggioranza delle illusioni e delle truffe, mia cara, riescono perché chi le commette non si chiede mai se funzioneranno oppure no! Le fanno e basta! Voi siete un’artista, e come tale la finzione è parte della vostra essenza: sappiate sfruttare questa dote, e tutto filerà liscio.»
«E io?» domandò Dustin.
«Mio caro, tu verrai nascosto nel doppio fondo dell’auto, e lì rimarrai fino a quando non te lo diremo noi! Non avere paura, starai comodo e avrai aria sufficiente per respirare! Ed ora miei cari ospiti, bon appétit!» tagliò corto.
“Un cachet…forse quello mi farebbe qualcosa…” pensò il barone massaggiandosi le tempie.
Arroccato nella stanza più alta della sua dimora, al buio, isolato da pesanti pannelli di piombo calati tramite un meccanismo su tre delle pareti, lasciando libera solo quella con la grande finestra; di fronte Absinth, che cercava di calmare i dolori che lo affliggevano.
Erano cominciati nel primo pomeriggio come un semplice cerchio alla testa, ma nel corso della giornata si erano intensificati: il collo era duro e gli occhi parevano due pietre roventi che gli scavassero le carni delle cavità orbitali.
Aveva cercato di non pensarci, facendo altro, ma qualunque cosa sembrava invece acuirli il dolore.
Era insopportabile.
Non che fossero rari i suoi mal di testa, riusciva sempre a tenerli a bada: oppio, assenzio, meditazioni, li erano sufficienti a lenire il dolore o a distoglierlo dall’idea, nonostante fosse perfettamente conscio della loro natura presagica.
E l’unica cosa che rimaneva era l’attesa, con cui Absinth aveva condiviso quasi tutte le sue esperienze, e a causa della quale alla fine aveva scelto la reclusione, forzata o volontari che fosse.
Senza cappello, giacca né occhiali, sedeva con la faccia rivolta verso la finestra, di là si intravedeva la città: magnifica e megalitica, costellata da luci che quasi oscuravano il cielo tingendolo di un nero rugginoso, nascondendo persino le stelle.
La sagoma di un dirigibile scout, più piccolo ed affusolato di quelli normali, attirò la sua attenzione: alto e scuro sorvolava la città silenziosamente, illuminando col suo singolo fascio giallo.
“I miliziani non riescono a tenere a freno la città?” chiese cinicamente.
Lontano, un flebile ronzio, come di migliaia di insetti, giunse alle sue orecchie, sembrava quasi riuscisse a vederli accalcarsi gli uni su gli altri, neri, metallici, brulicanti di vita: piccoli organismi, parassiti, che cercavano di accaparrarsi uno spazio vitale…man mano che Absinth vi si focalizzava, sentiva avvicinarli sempre di più.
Strinse le dita attorno ai soffici braccioli della poltrona su cui era seduto e chiuse gli occhi, deglutì, la bocca e la gola secca gli fecero male, ma cercò di non pensarci, così come anche il dolore alla testa, che si intensificava con l’arrivare dei ronzii, che ora capì essere migliaia di voci umane pullulanti.
Il cuore nel petto assunse il ritmo di una marcia militare, implacabile delineava il formicolante movimento di parole, immagini, sensazioni ed emozioni che il suo cervello percepiva come un’antenna.
Absinth rimase paralizzato, i pensieri esterni gli trafiggevano il cranio come centinaia di siringhe iniettandoli tutto un mondo: un overdose di microcosmi che lo stordirono lasciandolo tremante sulla poltrona.
Gemette, cercò di muoversi ma era troppo pesante, i nervi erano in fiamme; tutto il dolore, partendo dal cervello si sparse per il corpo sino ai piedi, ora non erano più solo i pensieri, ma era qualcos’altro di tremendo e invasivo che attraversata la mente, aveva corrotto i centri nervosi piegando la sua volontà.
“Chi?...”
Con un enorme sforzo ben al di là delle sue forze, Absinth si alzò dalla poltrona sentendosi uno storpio: le gambe, intorpidite, lo reggevano a malapena, barcollando avanzò di qualche passo, i pensieri sempre più simili al frinire metallico di grilli gli bombardavano il cranio; gli occhi, abituati all’oscurità della stanza individuarono un bastone appeso tenuto sulla parete da due ganci.
Riuscì ad afferrarlo, appoggiandosi con tutto il peso del corpo, sentì gemere il bastone, ma resse.
Schiacciò il pulsante accanto al bracciolo della poltrona e i pannelli di piombo ritornarono nelle scansie sul soffitto.
I pensieri erano vicini, molto di più di quanto si aspettava, li sentiva accatastarsi all’esterno della casa, non riusciva a capire a quanti appartenessero e a chi…”Come insetti comandati da una mente comune poco distante…”
Si avviò verso la porta.
“Sono qui…!”
Le gambe cominciarono a riacquistare funzionalità, le sentiva frizzare, come se la circolazione riprendesse a scorrere, ancora due passi e poi lasciò cadere il bastone.
Uno scoppio portentoso, un boato come il colpo di un cannone, esplose dal piano inferiore e le menti subito si riversarono nel salone.
Absinth avvertì distintamente l’intenzione minacciosa e seppe anche distinguerne il numero: cinque, più una sesta un po’ più distante.
Si ritrovò nel pianerottolo, imboccò le scale di corsa, la luce delle lampade sulle pareti cominciò a farli lacrimare gli occhi, pensò agli occhiali lasciati nella stanza, ma continuò a scendere i gradini.
Il rumore di uno sparo e il tonfo qualcosa che cadeva per terra.
“No!”
Per quanto il mal di testa e le luci lo distraessero, il barone concentrò la propria mente verso quelle cinque presenti: si accorse della loro semplicità lineare, cercò di forzarne una, ma qualcosa non lo lasciava entrare…
Vide la porta che dava sulla sala di fronte chiusa, i vetri smerigliati mostravano figure dai contorni disgregati dalle forme del vetro, tentò nuovamente di entrare in una delle menti, ma anche questa volta fallì.
Allora corse, ondeggiando goffamente, come non aveva fatto più da anni, raggiunse la porta spalancandola, le luci dei lampadari lo accecarono.