Tuesday, August 26, 2008



Dio quanto tempo è passato! Ma tra lavoro e studio (ebbene sì ho ripreso a studiare, dato che non ne potevo fare a meno) non ho avuto tempo e forse anche voglia.
Beccatevi questo racconto...

Dudael

“...E si unirono con loro ed esse rimasero incinte

e generarono giganti, la cui statura, per ognuno,

era di tremila cubiti.”

(Libro di Enoc II vii,2)

“E il Signore disse a Raffaele: «Lega Azazel mani e piedi

e ponilo nella tenebra, e stia colà in eterno, che non veda la luce.”

(Libro di Enoc II x, 2)

I quattro pilastri avevano forma circolare con la punta aguzza rivolta verso il cielo, circondati da una porzione di terreno che era sprofondata a causa delle frequenti scosse sismiche che percorrevano quasi tutta la crosta terrestre, come se l’intero pianeta cercasse di scrollarsi di dosso i germi che l’avevano fatto ammalare.
Muhammed si guardò intorno con desolazione: della splendida Damasco erano rimaste un cumulo di macerie e il grande minareto ovest della vecchia moschea, a testimone, dicevano, che Allah è davvero grande e non aveva abbandonato il suo popolo.
La solitaria torre era a poche centinaia di metri dalla fossa coi pilastri, ormai unico baluardo della memoria del prima; il minareto degli Omyyadi anche se eroso dal tempo e dai venti atomici che ancora soffiavano decisi, era riuscito a resistere e, nonostante fosse consunto, spuntava fiero dai resti della gloriosa città:
«Allah proteggici!» mormorò lui tra i denti fissando il minareto.
La tuta di piombo pressurizzata rendeva i loro movimenti goffi, ma era necessaria, dato che le radiazioni ancora non si erano dissipate del tutto; scintillanti come guerrieri santi avanzarono verso la fossa.
C’erano delle strutture in ferro, simili a impalcature e più in là un rifugio, tutto era stato montato da un gruppo di lavoro alcune settimane prima, gli stessi che erano stati portati via a causa della forte irradiazione, “Imbecilli!” pensò Muhammed “Esporsi così al vento!” .
«Fratello Kelith!» chiamò lui: «Ci accamperemo nel rifugio, occupatene tu! Voi due, seguitemi!» disse rivolto ad altri due membri della spedizione, la sua voce era ovattata e resa metallica dalla tuta.
Avvertì lo sguardo quasi omicida dei confratelli, ma non disse nulla: voleva avvicinarsi alla fossa e vedere da vicino i pilastri, dopo averne sentito parlare per così tanto tempo: erano lì a pochi passi, con la loro luce quasi innaturale che li circondava; studiarli per mesi interi, osservare attentamente le foto scattate, avevano scatenato in lui tutta una serie di sentimenti che oscillavano dal timore reverenziale all’interesse semi scientifico...ed ora erano di fronte a lui, mute e immobili alla stregua di denti scuri innalzati chissà da chi.

Dopo essersi fatto una doccia di vapore, si sentì decisamente meglio, nonostante l’opprimente sensazione che alcuni granelli di sabbia fossero riusciti ad entrare in contatto col suo corpo, ma non era vero.
Nudo con addosso solo un asciugamano in vita, si sdraiò sul letto incassato alla parete nella sua stanza, gocce di acqua condensata erano ancora sulla fronte e sui lunghi riccioli neri, chiuse gli occhi e pensò a casa, e alla guerra che si combatteva di là del mare Mediterraneo: gli eserciti papali di Pietro II che erano effettivamente diventati soldati di Cristo e gli eserciti mussulmani rinuiti sotto l’unico nome di Emirati della Mezza Luna, guidati da Jail al-Tawarikh.
Guardò verso l’oblò alla sinistra: fuori solo una distesa di sabbia rossa, il vento che la schiaffeggiava ne increspava la superficie e a Muhammed diede l’impressione di un enorme serpente che si muoveva veloce sotto di essa. Tra le piccole trombe d’aria sollevate distinse alcune sagome scure: resti umiliati della città, dissolta in un lasso di tempo poco più grande di un respiro, tutto ormai giaceva imobile e morto, i suq non avrebbero più colorato le labirintiche strade, di tutti gli odori rimaneva solo quello della cenere e della desolazione, un odore ferroso, pungente...di morte.
Cercò di non pensarci, mancavano venti minuti alle sette; alla sua destra c’era la quibla, una scritta in plastica nera nella direzione della Mecca, si inginocchiò e si mise a pregare concentrando tutta la sua mente e tutto il suo corpo in uno sforzo estatico verso Dio.

...

«Fratello Muhammed, abbiamo inoltrato i messaggi alla base e ora attendiamo risposta. Qui dentro gli apparecchi sono ancora tutti perfettamente funzionanti, il livello radioattivo è pressocchè nullo, nonostante questo, suggerisco di usare comunque prudenza.» il ragazzo era poco più che diciottenne, come altri anche lui si era votato alla causa, imbracciando le armi della fede e quelle da combattimento.
«Benissimo fratello Rashyd. Hai fatto un buon lavoro, ma ora andiamo a cenare, penseremo al lavoro più tardi o magari domattina, siamo tutti molto stanchi e abbiamo bisogno di riposo prima di metterci al lavoro!»
Il ragazzo annuì ed insieme raggiunsero gli altri cinque membri della spedizione in una stanza oblunga che era il refettorio.
Un tavolo in plastica e acciaio di un banale grigiore si trovava al centro, alto poco più di trenta centimetri, attorno otto sedie circolari prive di schienale su cui già gli altri erano seduti.
Salutarono Muhmammed appenà entrò che ricambiò con un ampio sorriso mentre si accomodava anche lui.
«Fuori comincia a fare buio, ma le colonne sono abbastanza luminose da permettere di vedere intorno.» disse Kelith con una voce nasale che suonava stranamente melodiosa: «Vogliamo fare un giro questa sera prima di cominciare domani mattina?»
Un fremito impercettibile percorse tutti i membri della spedizione, avevano tutti paura.
«Non c’è ne sarà bisogno, fratello Kelith. Questa sera riposeremo tranquilli, dobbiamo recuperare le forze. Come hai già detto tu, fuori è buio e nonostante la luce delle colonne sarebbe complicato trovare qualcosa o procedere a delle ispezioni. Quindi fratelli vi auguro buon appetito!»

“Hanno paura. Hanno tutti una paura incredibile, ed io con loro. Non posso biasimarli, i pilastri hanno qualcosa di strano, e questo posto lugubre non aiuta di certo...Allah dammi la forza, non devo farmi vedere spaventato o potrei perderli...”
«Ho trovato dei dischi nella sala ricreativa, funzionano tutti vi spiace se ne metto su qualcuno, fratello Muhammed?»
«Non siamo qui per ascoltare della musica, fratello Rashyd e tu lo sai!» esclamò freddo Kelith.
«Per me non ci sono problemi Rashyd. Fratello Kelith non credo che della musica possa nuocerci in qualche modo!»
«Un po’ di musica non può farci altro che bene, questo rifugio è un mortorio!» incalzò Gebel, un uomo dai capelli corti scuri e dinoccolato nei movimenti; gli altri annuirono.
Una musica ovattata cominciò a spandersi nell’aria, era un vecchio pezzo famoso circa venti anni fa, tutti per la durata della canzone ritornarono indietro con la mente, con tristezza, rabbia e rimrso,
«Come hai intenzione di procedere fratello Muhammed?» chiese Kelith sul vago mentre giocherellava con un cucchiaio in plastica nella crema verde dal vago sapore di rape selvatiche.
I profondi occhi scuri di Muhamed fissarono a fondo quelli di Kelith: «Abbiamo dei documenti da visionare: si trattano di dati sulla composizione dei pilastri, voglio cominciare da lì; ci sono dei frammenti in vitro delle colonne, se ne occuperà Rashyd. Gebel, tu e Jail invece vi occuperete delle trivelle, assicuratevi che siano ancora funzionanti poi attivatele e continuate con la perforazione del terreno circostante. Fratello Dumann voglio che tu rimanga dentro il rifugio, rendilo vivibile e naturalmente darai un’occhiata a messaggi che ci manderà la base.»
«E io?»
«Dato che hai tanta voglia di fare qualcosa puoi, cominciare con il levare di torno gli avanzi. Poi verrai nella mia stanza, ho alcune cose da dirti. Avete tutti la serata libera, fratelli, riposatevi pure!» detto questo si alzò dal tavolo con gli occhi carichi di odio di Kelith che gli pugnalavano la nuca.

“Dannato Kelith! Perchè rendere le cose più difficili?” ma lui lo sapeva.
Selassie Kelith aveva sino all’ultimo sperato nel posto di capo della spedizione, e fino all’ultimo era stato più che convinto che avrebbero scelto lui: tre anni di leva obbligatoria più cinque passati come capo nella guerriglia nelle cellule lungo lo stretto di Gibilterra; e invece gli ordini erano stati differenti, avevano scelto Muhammed Abu Khaled; lui che a differenza degli altri aveva solo fatto il servizio di leva obbligatoria e poi aveva abbandonato le armi per studiare Filosofia Comparata a Gerusalemme sino a quando le Nazioni Unite Europee non avevano raso al suolo l’intera città, compresi civili mussulmani, cristiani e ebrei, facendo della città santa la città morta!
Ma Kelith poteva risultare un elemento di forte disturbo per la riuscita della spedizione, il suo comportamento, un misto di boria e arroganza accondiscendente, poteva compromettere la missione e in primo luogo l’umore dell’intero gruppo.
Eppure era innegabile che fosse una persona competente, con otto anni più di lui, Kelith era abituato a muoversi in luoghi inospitali come la piana di Damasco, esperto nella sopravvivenza e all’uso di determinati congegni... “Ma allora perchè non mettere lui?”
Nella sua stanza, seduto al tavolino cercò di studiare i documenti, ma era troppo stanco e faceva fatica a concentrarsi.
Bussarono alla porta.
Kelith, senza attendere risposta entrò nella camera chiudendosi la porta alle spalle.
«Volevi vedermi fratello Muhammed?» chiese accigliato.
«Siediti fratello Kelith, voglio parlarti.» cercò di essere gentile.
«Preferisco rimanere in piedi. Ho delle cose da sbrigare e non ho molto tempo!» rispose brusco.
Muhammed tirò un sospiro e scosse leggermente il capo: «Innanzitutto volevo scusarmi per prima. Sono stato uno stupido lo ammetto, chiederti di rassettare la tavola non è stato gentile da parte mia e...»
«Scuse accettate!» tagliò corto Kelith: «Cosa vuoi fratello Muhammed?»
«So perchè ti comporti così, è per via del posto come capo della spedizione. Posso dirti che mi dispiace, non so perchè hanno scelto me, le mie competenze in campo militare sono scarse, mentre le tue be...»
«Questo dovrebbe farmi sentire meglio?»
«Se cercassi di venirmi incontro magari lavoreremmo decisamente meglio, non credi?» rispose calmo evitando la provocazione: «Da solo non credo di potercela fare, per questo ti chiedo di assistermi, farmi da vice; abbiamo già abbastanza problemi che rimanere qui a farci i dispetti non può farci altro che male, a noi e alla spedizione.
«La base operativa non mi ha dato nessuna indicazione sul ruolo militare di ognuno di voi, presumo quindi di avere carta bianca; perciò te lo chiedo ancora una volta...»
Qualcunò bussò alla porta in maniera frettolosa, la testa di Rashyd fece capolino da uno spiraglio:
«Fratello Muhammed! Scusa l’intrusione, devi venire in laboratorio: ho qualcosa da mostrarti!»
Come la maggior parte delle stanze del rifugio, anche il laboratorio era circolare, su una parte della parete in una nicchia erano state messe delle luci che simulassero la luce del sole, evidentemente per piante o erbe, ma non vi era traccia di vegetali; sulla parete di fronte un lungo tavolo che seguiva il perimetro del muro ospitava una quantità di provette, alambicchi, la maggior parte tutti vuoti.
L’odore di ammoniaca si mischiava a quello della polvere aleggiando su ogni cosa.
Rashyd portò Muhammed di fronte al microscopio, lasciando Kelith sulla porta; sul vitro era stato messo un minuscolo frammento di una delle colonne, con la voce eccitata il ragazzo disse:
«Non capisco fratello Muhammed, insomma ho analizzato per tre volte i frammenti ed è strano, insomma io...io...»
«Cosa vuol dire è strano?» chiese Kelith avvicinandosi.
«Date un’occhiata voi stessi!»
Muhammed poggiò l’occhio sinistro sull’oculare, girò la manopola per focalizzare la vista e vide piccoli corpuscoli grigi dalla forma circolare che tremolavano velocemente e a tratti si muovevano come se fossero vivi.
«Rashyd cosa significa?» chiese sollevando lo sguardo verso il ragazzo.
«Ho controllato anche i frammenti delle altre tre colonne ed è la stessa cosa, non vorrei dirlo ma sembra che si tratti di materia organica!»
«Cioè viva?» chiese Kelith mentre guardava nella lente.
«Più o meno. All’inizio ho pensato fosse un problema mio dato dalla stanchezza, poi ho temuto che fossi stato contagiato dalle radiazioni e che erano quelle a darmi delle allucinazioni, ma non è cosi...insomma di qualunque cosa siano fatte quelle colonne è un qualcosa di organico; gli strumenti che abbiamo qui non sono sufficienti per compiere delle anailsi approfondite, questo microscopio non è nemmeno elettronico, qui tutto è in decadenza: scommetto che se povassi a prendere una delle provette in mano si frantumerebbe come fosse sabbia!»
«Rashyd hai fatto un buon lavoro, ora dobbiamo capire solo il materiale con cui...»
«Nessuno!» interruppe il ragazzo.
«Cosa vuoi dire?»
«Quegli organisimi, perchè sono organisimi, non hanno nulla in comune o di simile con quanto conosco: la loro composizione, il loro movimento, tutto insomma è sconosciuto...fratello Muhammed quei pilastri non sono normali!»

Verso le undici un forte stridore proveniente dalla fossa si propagò nel rifugio: le trivelle avevano ripreso a funzionare.
Muhammed daccordo con Rashyd e Kelith aveva deciso di non mettere al corrente gli altri delle analisi condotte sui frammenti, per evitare qualunque tipo di reazione; la base operativa aveva mandato un semplice messaggio col quale avvisava la spedizione di aver ricevuto la loro nota sull’arrivo al rifugio, ma di più non aveva detto.
Il rombo possente e cadenzato delle trivelle, come i battiti di un enorme cuore facevano vibrare il rifugio, dando la sensazione spaventosa che tutto potesse collassare su sè stesso da un momento all’altro.
Gebel, un uomo basso e corpulento dai capelli corti rientrò nel rifugio e si avviò verso la stanza di Muhammed ripulendosi le mani dal grasso:
«Fratello Muhammed le trivelle sono in funzione, non hanno nessun problema erano solo state disattivate manualmente. Vuoi lasciarle accese tutta la notte?»
«No, fratello Gebel. Le accenderemo domattina all’alba, mi interessava sapere solo in che stato erano...»
«A parte la sabbia che è ormai dappertutto, sono a posto. È incredibile come riesca a ficcarsi in ogni angolo, tra un po’ me la sentirò anche dentro il culo!»
Muhammed sorrise: «Bè speriamo proprio di no! Bene, è quasi la mezzanotte e domattina ci aspetta una giornata piena di lavoro, avvisa gli altri che possono anche andare a dormire se vogliono.»
«Allora buona notte fratello, a domani!»
«A domani!»
Rimase seduto al tavolo ritornando a controllare i documenti che gli avevano dato alla base, sperando magari di riuscire a concentrarsi: si trattava di foto satellitari e rapporti circa la struttura dei pilastri: alti una ventina di metri e con un diametro di circa sei, non avevano nulla di particolare se non la loro età che sembrava risalire a circa un milione di anni fa, la loro forma perfetta, tutte erano praticamente identiche tra loro, aveva acceso la fantasia degli scienziati che avevano sostenuto come esse fossero la prova dell’esistenza dei giganti. Ma oltre a questo, Muhammed si chiedeva come potevano risultare utili nella guerra contro gli infedeli, e sopratutto che cosa avrebbe potuto fare lui!
Quando i dati e le cifre cominciarono a danzare davanti agli occhi quasi in fiamme, decise che era meglio mettersi a letto.
Lasciò i fogli sul tavolo e si coricò, mentre fuori il vento ancora ululava come un enorme lupo famelico impazzito.

...

Vide le mura di una città antica quanto il mondo, la vide come se si trovasse dall’alto e lui fosse una vista a trecentosessanta gradi, riconobbe la cupola di una moschea e un enorme minareto ma non sapeva dire a quale luogo appartenessero; il sole luccicava sulla distesa di sabbia fuori dalla città facendola rilucere come se si trovasse su un gigantesco specchio di acqua calda. Sugli spalti vi erano figure appollaiate, figure umane, ma erano così lontane da non riuscire a distinguerne i tratti.
E vide le porte spalancarsi, e dalle porte uscire una capra, appena l’animale fu fuori, le porte si
richiusero e subito le figure umane cominciare a lanciare sassi contro di essa. La capra allora per evitare di essere colpita cominciò a correre verso l’infinità del deserto e tutta la gente che assisteva, esultare festosamente.
La capra si fermò esattamente sotto la sua vista, guardandosi spaesata, cercò di brulicare, ma trovò solo sabbia.
Allora cominciò a belare, e il suo belato era come un vagito di bimbo, disperato e altisonante e contnuo, fino quasi a perdere fiato.
Lui ascoltò il verso della bestia che si faceva più forte, sempre più forte, fino ad entrare dentro le sue invisibili orecchie e si accorse, capì che il verso diceva una cosa, sempre la stessa cosa:
«Elbis! Elbis! Elbis!»

...

Non fu tanto lo strano sogno a svegliarlo, quanto il continuo battere che proveniva da fuori sovrastando il soffiare del vento: “La trivella!” pensò subito dopo essersi conto di dove si trovava, l’orologio meccanico al suo polso segnava la mezzanotte, e si rese conto solo ora di non averlo caricato.
Nel rivestirsi maledì con forza le Nazioni Unite Alleate che avevano bombardato con la nucleare, impedendo con le radiazioni l’utilizzo di qualsiasi oggetto elettronico.
Uscì nel corridoio dove trovò gli altri più o meno nelle sue condizioni:
«Fratello Muhammed, cosa succede? La trivella si è messa in funzione!» disse Gebel, poi aggiunse: «Ma l’avevamo spenta!»
«Prendete le armi e seguitemi!»
Indossarono le tute e si avviarono verso l’uscita: “Dov’è Kelith?” si guardò intorno, ma forse sapeva dove si trovava.
«Jail vai a svegliare Kelith e raggiungeteci alla fossa!»
Fuori la notte era nera come l’inferno, il vento radioattivo aveva il rumore di mille lamenti, ma le trivelle quasi lo sovrastavano, le luci alle impalcature erano accese, così come quelle montate attorno alla fossa dei pilastri.
«Fratello Muhammed!» Jail gli venne incontro trafelato: «Kelith non è nella sua camera!»

“Sapevo che saremmo arrivati a questo punto! Allah aiutaci!”
«Andiamo fratelli, e che Allah sia con noi!»
E lì proprio al centro, la figura di un uomo in tuta armeggiava tra i pulsanti dei macchinari.
«Kelith!» urlò Muhammed cercando di farsi sentire: «Kelith cosa stai facendo, in nome di Allah!»
Ma Kelith non sentiva, era troppo preso a controllare che tutto andasse perfettamente.
Muhammed fece cenno agli altri di seguirlo. Una scala era stata scavata attorno alla fossa, ricavata direttamente dalla roccia intorno; in fila scesero uno dopo l’altro.
«Fermi dove siete!» urlò Kelith con un fucile a granate puntato contro di loro: «Non avvicinatevi o vi faccio saltare in aria!»
Si bloccarono.
«Cosa credi di fare?» domandò Muhammed.
«Quello che tu non hai voluto fare! Sotto i pilastri c’è una cupola e va aperta! La guerra con gli infedeli è a nostro svantaggio e tu vuoi aspettare fino a domani?»
Il boato delle trivelle da dove si trovavano era più forte, quasi a spaccare i timpani...

DOOM! DOOM! DOOM!

«Kelith sei pazzo! Una notte in meno non cambierà le sorti della battaglia!»
«Cosa ne sa di strategia militare un filosofo?» chiese lui con tono beffardo: «Qui sotto si trova l’arma che ci farà vincere la nostra guerra santa! E ora allontanatevi, la cupola è quasi aperta!»
Come enormi zanne metalliche le trivelle procedevano nella loro discesa, le luci fredde e gialle illuminavano una porzione di terreno ai piedi delle colonne, la roccia era stata spaccata e si intravedeva qualcosa dello stesso colore dei pilastri: “Kelith aveva ragione! Perchè non ero stato avvisato di questo!” si chiese.

DOOM! DOOM! DOOM!

«Kelith allontanati da lì, è un ordine!» tuonò Muhammed.
Rashyd si sporse in avanti puntando la pistola.
«No!» urlò Muhammed, cercando di deviare il colpo, lo sparo risultò quasi silenzioso tra il vento e le trivelle, il proiettile colpì un angolo delle impalcature con un debole suono di metallo contro metallo.
Kelith sparò.
La granta uscì dalla canna con un flop che aveva dell’irreale, avanzò nella sua traiettoria, gli occhi di tutti erano punati su di lei.
Non urlò nessuno, forse la paura, forse l’incomprensione del momento.
Muhammed abbassò l’arma, nell’ultimo istante ricordò il suo professore di teologia che discuteva di Averroè e del suo “Distruzione della Distruzione”, ma a parte il titolo, così indicativo della situazione, non ricordò nulla di più; chiuse gli occhi, quasi con rassegnazione: “Allah accoglici nelle tue file!”
L’esplosione si propagò con un suono cupo e tremolante, lo spostamento d’aria mandò per terra Kelith ad alcuni metri di distanza.
Pezzi di roccia, polvere e carni cominciarono a spandersi nell’aria ricadendo in vari frammenti.

DOOM! DOOM! DOOM!

Il vento e le trivelle, e nientaltro.
Le scale erano frantumate in vari punti, dei membri della spedizione non c’era più nessuna traccia.
Kelith si sollevò da terra, un frammento lo aveva colpito alla gamba, ma la tuta aveva attutito il colpo, sporco di polvere e detriti si sollevò da terra, trionfante.
Udì il suono della roccia scura che si frantumava, un rumore più forte delle trivelle e del vento stesso.
«Ci siamo! Allah sia lodato!»
Spense le macchine.
Il foro era largo quasi un metro, c’era ancora della polvere che cominciava a dileguarsi, portata via dal vento; Kelith col respiro reso affannoso dall’eccitazione, prese una torcia che si trovava sulla consolle di attivazione delle trivelle e fece alcuni passi verso il buco, che nero giaceva lì, a poco da lui.
La base operativa gli aveva detto bene: esisteva uno strato di roccia scura che ricopriva come una sfera qualcosa alla base dei pilastri, e ora quella sfera era stata aperta e lui era lì a vedere che cosa custodiva.
Illuminò dentro la spaccatura, quasi perfetta nella sua circolarità, la luce si perdeva dentro di essa, illuminando la sagoma di qualcosa che sembrava giacere lì dentro, qualcosa di enorme.
A Kelith sembrò udire come dei sussurri intorno a lui, come se il vento avesse smesso di soffiare immediatamente, illuminò intorno ma non c’era nulla, ritornò a guardare la sagoma dentro il buco, riconobbe come delle dita, delle enormi dita legate a qualcosa simili a catene, poi quelle dita parvero muoversi, ma Kelith non ne era sicuro, i sussurri attorno lo distraevano, si facevano più forti e cominciavano quasi ad avvicinarsi...

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