Sunday, May 13, 2007


Ben ritornati, ho appena concluso l'ottavo capitolo, godetevelo e se vi scappa un po' di tempo, tirchi e spilorci, mettete qualche commento...

La via dell’intelletto

C’era una landa desolata intorno, dove, come denti marci, spuntavano guglie nere, sfaccettate, che al vento risuonavano di preghiere sommesse e continue.
Un cielo verde e cangiante, scendeva all’orizzonte, denso e pesante come melassa; il terreno era secco e costellato di crepe, facendolo assomigliare al volto rugoso di un vecchio.
Lui seppe con precisione che lì, su quella terra arida e scura, una volta cresceva un rigoglioso giardino, con sgargianti viti e splendidi rampicanti che correvano intorno alle guglie e grossi alberi di succosi frutti variopinti dagli odori più strani, più vivi, così pungenti che l’aria ancora sembrava conservarne un ricordo.
Senza camminare arrivò a delle enormi mura che giacevano simili ad altari di memoria antica. Sventrata e a pezzi, battuta dal vento e dal tempo, che ne avevano limato i bordi, la cinta correva in entrambi i lati sembrando voler ancora abbracciare un cerchio di terra, di là da essa.
L’opprimenza e il senso di tetritudine accrescevano avvicinandosi alle mura: un giorno molto lontano quel luogo era stato luminoso e vivo, pieno di luce e calore, ora invece rimanevano solo vecchie rovine, detriti e tanta desolante tristezza.
Questo pensò mentre oltrepassava i blocchi di pietra scura semi coperti dalla terra.
Nel mezzo della terra un albero scuro dal tronco grosso e nodoso e completamente marcio che si divideva in due tronchi più piccoli da cui scendevano i rami contorti e lunghi su entrambi i lati, dando come l’impressione di un libro aperto.
Le tre nette radici affondavano violentemente nel terreno e sul tronco in rilievo alcuni nodi erano cresciuti formando una parola:

Da’at

Ogni elemento di linfa vitale nell’albero era stato estirpato, la propria essenza violentata, eppure conservava ancora un residuo di vitalità che lo lasciava a spegnersi lentamente, prolungando l’agonia.
Ad alcuni rami erano cresciute escrescenze sferiche dai contorni gibbosi, che assomigliavano a piccoli frutti malati e scuri.
Lui percepì perfettamente il dolore continuo che l’albero emanava, un dolore antico, vecchio di secoli, che perdurava come un cancro, prolungandosi nel tempo.
Giunsero le preghiere dalle guglie, sussurri portati dal vento che lo avvolgevano completamente, erano versi melodiosi e pieni di armonia, recitati da voci così perfette nella loro estensione da non sembrare umane:

“Tra Saggezza e Intelligenza

Conoscenza risiede,

violata con violenza,

che in dono Infinito vi diede.”

Così ripetevano le voci in un ciclo senza tempo, alimentando il dolore di quel giardino appassito ormai da chissà quanto.
Qualcosa di forte, di caldo lo prese attirandolo a sé nella direzione da cui era venuto, gli fu impossibile resistere e nell’attimo in cui vide l’albero, le mura e le guglie allontanarsi capì che vi sarebbe tornato presto, perché il luogo aveva lasciato le tracce su di lui per poterlo ritrovare ancora e ancora.
Un giro lontano di musica, su scala differente, come una sinfonia stonata eseguita in una camera dalla sorprendente eco, con lentezza, quasi ad intermittenza.
«Non dovevi portarlo qui!» diceva un flauto dizi.
«E dove allora?» rispondeva un controfagotto.
«Cosa dovrei fare io?» chiedeva ancora il dizi.
«Non lo so, preparali da bere! Non vedi il sangue?»
«Per gli dei!» esclamò esausto il flauto.
«Non bestemmiare!» sembrò minacciare il controfagotto.
«Sono i miei dei e posso anche pisciarli addosso! E ora fuori di qui, tutti!» urlò il flauto.
La musica cessò e un suono liquido prese il suo posto.
Il buio era scalfito da piccole gocce di luce giallastre, così deboli e piccole da sembrare stelle lontane immerse in una immensa volta nera.
«Mmm…» il dizi mugugnò, o così parve e poi parlò velocemente in una lingua sconosciuta ma melodiosa, rise divertito ed una seconda risata più acuta, e rauca gli fece eco.
Lentamente le gocce di luce si allargarono riversandosi nel buio contaminandolo: fu doloroso per gli occhi, nel lungo lasso di tempo quello che vide fu solo una grande luce dove si agitavano figure scure, poi gli occhi misero a fuoco, e Mazim vide un ometto piccolo davanti a sé con indosso una lunga veste di raso blu che gli scendeva sino ai piedi foderati da graziosi mocassini di identico colore; aveva lunghi capelli neri raccolti in una treccia perfetta cascante sulla spalla sinistra, occhi a mandorla e un paio di baffi lunghi sino al petto.
Un piccolo pappagallo verde si dondolava sulla spalla destra, guardando a becco aperto Mazim steso su un tavolo metallico.
La camera era piena di casse a ridosso delle pareti, con ideogrammi colorati su ognuna di esse, un odore di erbe e incensi aleggiava pesante, gli occhi di Mazim corsero da un lato all’altro della stanza, cercando di capire dove si trovasse, ma non riconosceva il luogo né riusciva a capire come ci fosse arrivato.
«Per i Nove Cieli! È davvero una brutta ferita la sua: mi ricorda tanto quella che esibiva il mio camerata, riuscivo quasi a vederli i polmoni e lui era ancora vivo…hi hi hi…» rise cigolando mentre si lavava le mani in un catino, il pappagallo nel frattempo era volato su di un trespolo lisciandosi le penne in tranquillità e rispose alla risata con un’altra risata.
«Ma io non mi preoccuperei, se è ancora vivo una speranza c’è!»
“Chi è questo?” gli occhi neri di Mazim guardarono i movimenti dell’ometto che aveva messo dei guanti e preso strani attrezzi metallici che andava riscaldando sulla fiammella di un fornello da campo e li posizionava su un vassoio accanto con meticolosa cura.
«Non ci crederai mai Fei Lian, ma questo qui è ancora vivo nonostante una pallottola gli abbia trapassato lo stomaco uscendo dall’altra parte senza spappolarlo!...hi hi hi…» spiegò al pappagallo.
Mazim aprì la bocca, o quantomeno ci provò senza riuscirci, rendendosi conto che era come non avere nulla al di là degli occhi: sentiva di non sentire nessuna altra parte del corpo; il panico lo aggredì, si mosse, ma ancora non provò nessuna sensazione, il corpo era immobile, nemmeno un peso, solo il nulla.
Roteò disperato gli occhi come alla ricerca di una spiegazione ed incrociò quelli vispi dell’ometto.
«Sei sveglio! Bene, bene. Come ti senti?»
“Non posso muovermi!”
«Non capisci, eh? Devi essere ancora sotto choc! È normale, sei quasi morto…hi hi hi…»
“Imbecille non sono sotto choc, sono paralizzato!”
«Ora ti medicherò la ferita, sentirai un po’ di dolore, ma questo è un bene…» afferrò una pinza dal vassoio accanto e con essa prese una garza da un contenitore di terracotta: un odore pungente si sparse nella stanza.
“Non capisci? Non riesco a muovermi…guarda i miei occhi…cazzo…cazzo…cazzo!” pensò terrorizzato.
«Sai Fei Lian, forse dovrei addormentarlo, la medicazione è dolorosa: devo scavare all’interno, ripulirla e non credo che il ragazzo possa reggere…oppure posso aspettare che il dolore lo faccia svenire, ma sarebbe crudele, che dici?»
Il pappagallo emise un verso e continuò a dondolarsi.
«D’accordo, farò così!» rispose l’ometto al pennuto.
Lasciò la pinza scocciato e si frugò in una tasca dove estrasse un fazzoletto, lo piantò in faccia a Mazim premendolo sul suo naso:
«Respira figliolo!» disse l’uomo.
“Merda! ti prego no…qualcuno mi…”
Un profumo fresco penetrò le narici del ragazzo impedendoli di formulare altri pensieri, un attimo dopo gli occhi si incrociarono e tutto attorno perse consistenza, poi lui svenne.

Attorno a un tavolo di pietra circolare, dalla superficie molto simile ad una scacchiera, erano seduti un uomo ed una donna.
Mazim si accorse di essere su una rupe che si reggeva nel mezzo dell’aria senza appigli, un rumore di cascata proveniva dal basso, sporgendosi notò il getto di acqua che potente e libero sgorgava dalla rupe a mo’ di becco di rapace, sotto il vapore si innalzava candido, impedendoli di guardare cosa ci fosse.
Poteva muoversi!
Era a piedi scalzi, accarezzò la sensazione di fresco dell’erba soffice tra le dita: “Un sogno? Ma se quello era un sogno, allora questo cos’è?” pensò guardando intorno sconcertato.
Lontane si ergevano picchi altissimi che apparivano illusori, ammantati da cortine di nebbia così fitte da sembrare veli da palcoscenico.
“Non capisco più un cazzo: sono morto? E quelli chi sono?”
«Avvicinati.». Aveva parlato l’uomo.
La pelle scura e liscia aveva il colore del caffé macchiato e due occhi di un nero lucente; era nudo, il corpo scolpito, come anche la donna che nuda gli sorrise: stesso colore della pelle, stesso colore dei capelli…anche il volto era simile…
“Gemelli?”
Mazim avanzò verso di loro, non sembrava esserci ostilità nelle loro intenzioni, o almeno così sembrava.
C’era sul tavolo uno schema fatto con sfere colorate non più grandi di un orologio da tasca, da ognuna di esse partivano linee scure che si collegavano alle altre in un disegno ben preciso, Mazim contò nove sfere in tutto, quando fu vicino la donna puntò il dito verso la base del disegno: c’erano tre linee che partivano dalla nona sfera ma non si congiungevano a nessuna altra.
«L’albero è stato violato, Mazim.» disse la donna.
“Chi?”
«Il regno è andato perduto. E tutto è in decadenza.» rispose l’uomo.
«Il regno? L’albero? Che significa? E chi siete voi?»
«Sei tu che sei venuto, Mazim, e noi ti abbiamo accolto…» disse la donna.
«Sono morto? È così, vero?» chiese il ragazzo.
«No.» rispose la donna. «Hai solo superato la soglia della conoscenza e sei sulla strada dell’intelletto…»
«Cazzate! Non capisco una parola di quello che dite…odio i giri di parole…ditemi chi siete e cosa ci faccio qui!»
«Questo è l’albero della vita…» disse la donna indicando il disegno davanti: «Esso regge l’universo in ordine e armonia…»
«Cosa c’entra con quello che ti avevo chiesto?»
La donna guardò l’uomo seduto di fronte, poi ritornò a guardare Mazim: «Proprio non capisci, scimmia
«Scimmia?» il ragazzo parve colpito da uno schiaffo in pieno volto. «Come ti permetti, puttanella?»
«Non dovevi…» disse l’uomo alla donna. «Deve essere un araldo e ha bisogno di spiegazioni…»
«Un araldo? Lui?»
«Abbiamo avuto araldi ben peggiori…ubriaconi, schizofrenici…lui non è male, o almeno non sembra.»
«Ma di cosa parlate?» Mazim cominciava a stancarsi.
La donna tornò a guardarlo, squadrandolo da capo a piedi:
«Sei in gioco, Mazim. Dovrai informare le genti della decadenza che incombe, dirai loro che l’ultima sfera è andata perduta, la terra è contaminata dai troppi abusi e presto la fine sarà alle vostre porte…»
«La fine del mondo?»
«La fine del vostro mondo, non del Mondo.» rispose l’uomo.
«E come dovrei dire tutto questo? E soprattutto perché dovrei? Insomma è un sogno, no? Questo posto, voi due, la storia della decadenza…non ha senso…»
L’uomo e la donna si guardarono.
«Sai cosa sono le sephirot?» chiese l’uomo alla fine.
«No.» rispose Mazim.
«Araldo, vero?» disse lei sarcastica.
«Le sephirot sono chiavi che reggono l’Universo intero, manifestazioni di espressioni superne, perfette e immortali…una di esse è andata perduta, abusata…»
«E se sono perfette e immortali come ha fatto una a perdersi?»
La donna prese la parola con ovvietà rispose: «La colpa è solamente vostra. Qualunque cosa che a voi scimmie viene data, ha la capacità di distruggersi, ogni cosa che toccate si contamina e prima o poi muore
«E questa…chiave…è distrutta?» Mazim decise di stare al gioco e assecondarli, dimostrandosi interessato e partecipe, senza fregarsene realmente.
«No, è corrotta. La distruzione è però vicina…»
«E immagino che solo un uomo potrà salvarla, cioè io, vero?» domandò sorridente.
«No, non si salverà. Non c’è bisogno di eroi, quello che dovrai fare è avvisare della decadenza…»
«Ma non ha senso…!»
«Non lo deve avere, infatti. Ti limiterai ad annunciare la decadenza, perché così è stato deciso! La vostra epoca è finita, scimmie; si salveranno coloro che hanno capito e coloro che conoscono…»
«Da chi è stato deciso, da Dio?»
I due tacquero.
All’improvviso Mazim smise di divertirsi e sorridere.
«Voi non state scherzando, vero?»
L’uomo scosse il capo.
«Ma io non poso…cioè io non so nulla di Dio, non sono un cristiano…non…»
«Pensi che il tuo Dio sia differente da Quello che governa questo luogo? Forse avremmo dovuto accoglierti nel giardino delle vergini, magari avresti capito? È questa una delle cause della corruzione: voi scimmie adorate sentire il suono delle vostre parole da non ascoltare nessun altro, non vi rendete conto che dite le stesse cose.» disse lei.
«Non ci sono eletti o preferiti, Mazim, ci siete voi tutti e la vostra degenerata corsa alla perfettibilità, così sbagliata, così abusata…non esiste nemmeno punizione divina sul regno, perché avete la libertà di fare quello che più ritenete opportuno. Ed ogni conseguenza è causata dal vostro agire.»
Mazim abbassò gli occhi. Aveva perduto la sua spavalderia e la sua arroganza, ora si sentiva più nudo dei due di fronte a lui, più colpevole di quanto si fosse mai sentito in tutta la sua vita, ricordò della paralisi:
«Come farò a farmi credere? Nessuno ascolterà le mie parole…e poi…sono paralizzato, non potrò parlare, né muovermi…sono una larva…»
«E’ proprio questo il bello, Mazim.» disse la donna sorridendo: «La via dell’intelletto non è dritta e illuminata…»
«Cosa vuol dire?» chiese il ragazzo.
«Che sono solo e tutti fatti tuoi!» rispose l’uomo con lo stesso sorriso.
«Ma perché avvisare se tutto è perduto?»
«Perché non sarà la fine del mondo, ma solo un cambiamento e coloro che sperano in questo, che attendono, devono essere avvertiti che l’attesa non è stata vana e che il momento è giunto…»
«Moriranno a migliaia, innocenti…bambini, donne…»
«Solo quelli che non hanno anima…e non credere, Mazim, sono molti a non averla…troppi! Il regno deve mutare, la corruzione è metamorfosi di creazione…catarsi per nuova vita…»
«Non capisco…»
«Non c’è da capire, solo accettare!»
«Và ora! Avrai modo di ritornare…» lo rassicurò l’uomo.
«Un ultima cosa…» disse la donna: «Un uomo, un condottiero di nero, ha intrapreso la tua stessa strada.»
«E quindi?» domandò Mazim.
«Proprio non capisci vero scimmia?»
Il ragazzo sentì una pressione allo stomaco, come se le interiora volessero scappare fuori, poi la luce attorno si confuse con la nebbia.

Quando riaprì gli occhi, la sensazione era solo un ricordo lontano.
L’ometto vestito di blu lo guardava soddisfatto e sorridente dall’alto.

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