Sono molti i granelli che Cronos ha versato nella clessidra dela mia vita, è tempo di ritornare a far sentire la voce di questo viandante, dopo mesi di assenza... buona lettura a tutti voi!
Il divoratore di sogni
«Chiudi la finestra!» gracchiava l’enorme uccello appollaiato sulla testiera del letto: il piumaggio era avanti negli anni, da nero che era stato un tempo, presentava ora punte bianche che costellavano tutto il corpo dell’animale, come spruzzi di neve; scrutava maligno, attraverso occhiali rettangolari dalla grossa montatura di plastica nera, il ragazzo seduto poco distante, rannicchiato sul materasso con le spalle appoggiate alla parete e le gambe ritirate fino quasi a toccare il petto.
Il rapace grande quanto un infante, aveva la faccia di una donna inacidita dal mondo: occhi sottili e penetranti, un lungo e adunco naso molto più simile ad un becco, i capelli lisci corvini, avevano la lucentezza di una tinta appena fatta e la forma a caschetto perfetta le dava una forma ovoidale.
Ingobbita e vigile si passava ogni tanto le rachitiche braccia sul viso massaggiandosi la pelle liscia e lucente ma chiazzata dalle macchie dell’età e da rughe lampanti, poi ritornavano a congiungersi sotto il petto, mentre due zampe stringevano saldamente la barra anteriore del letto.
Era notte.
Di questo il ragazzo poteva esserne certo, anche se non sapeva l’ora: dalla finestra alla sua sinistra non filtrava nessuna luce, e la piccola abat-jour posta nell’angolo della parete di fronte mandava la propria luce sul vetro, rendendo impossibile vedere al di là.
«Chiudi la finestra!» ripeté l’uccello con una voce lamentosa, sgomitando le ali e le piccole braccia.
«E’ chiusa, non vedi?» sbottò lui scocciato.
La donna rapace guardò prima la finestra, poi il ragazzo poi ancora la finestra, quindi si ingobbì ancora di più.
Il giovane prese a dondolarsi lentamente mordendosi il labbro, il suo udito venne catturato da un rumore simile a gocce di acqua che cadevano per terra, volse lo sguardo in direzione della lampada per terra e vide che un angolo della lampadina gialla era forata e la luce colava sul pavimento in minute e scintillanti gocce a formare una piccola pozza di luce della stessa intensità; c’erano due pesci brillanti, rossi e spigolosi come rubini, che vi nuotavano in tondo.
“E’ cominciato!” si disse lui sconfitto. “Sono stato sveglio ma è accaduto ancora, perché?”
«Te lo dico io perché!» rispose una voce accanto, proveniva da una splendida fata accucciata per terra, nuda e dai capelli scarmigliati del colore e dell’aspetto del fuoco, cangianti come avessero vita di propria.
«Tu ci chiami a te, strappandoci agli altri, come un faro ci inviti, e noi come falene non possiamo che seguirti…» la creatura sorrise con dolcezza e gentilezza, posò il capo sul bordo del letto e socchiuse gli occhi, perdendosi forse nei suoi pensieri.
«Anche se non ti apparteniamo…» continuò uno dei due pesci. «Noi siamo obbligati a venire da te: ogni volta che abbandoniamo le dimensioni dello spirito e dell’anima, sentiamo il tuo richiamo che non possiamo ignorare.»
«Basta, vi prego, andate via!» supplicò il giovane invano.
Gli occhi sbarrati e lucidi, gonfi di sonno e di stanchezza, li chiuse serrando forte le palpebre perdendosi nel loro buio fino a che non cominciò a vedere luminosi cerchi concentrici che restringendo scomparivano uno dopo l’altro.
Quando li riaprì nulla era cambiato, le strane creature erano ancora lì.
«Ho bisogno di rimanere da solo, ho bisogno di dormire!» supplicò.
Risero tutti.
La giovane fata dolcemente, i due pesci rotolando nella pozza luminosa boccheggiando, mentre la donna rapace sgomitò gracchiando con un verso più simile ad una tosse.
«Non ti piace la nostra compagnia?» chiese un pesce.
«Eppure non diamo fastidio…» disse l’altro.
«Pensa che una volta ad uno come te gli abbiamo distrutto mezza casa…» continuò il primo.
«Già ma erano altri tempi quelli…»
«Voglio morire!» esclamò il giovane.
Come in risposta un basso e prolungato suono arrivò da fuori, oltre la finestra, la sagoma di qualcosa di enorme si materializzò di là dei vetri.
«Che cos’è ora?» domandò il giovane.
Si alzò scostando una logora tendina di plastica e vide che davanti, nella strada, scivolava lento un transatlantico, si era ristretto per poter passare nella via, ma la sua altezza era sempre la stessa, i boccaporti illuminati erano a circa due metri sopra la sua testa, così da non poter vedere cosa ci fosse all’interno.
Una scritta in bianco faceva bella mostra di sé sulla fiancata: Sole Nascente, e sul ponte decine di persone in luccicanti abiti di gala, sollevarono un calice verso di lui in segno di saluto.
«E’ opera vostra?» chiese lui.
Tutti negarono.
«Sei tu, mio caro.» disse la fata.
«Sei tu! Sei tu! Sei tu!» ripeté la donna uccello.
Scivolando come una sacco di iuta, il ragazzo si afflosciò per terra, con le mani nei capelli: «Dio mio! Qualcuno mi aiuti. O mi svegli, o mi addormenti. Qualunque cosa basta che tutto questo finisca!» si lamentava.
«Ma perché?» ribatté la fata. «E’ così bello vederti ogni notte, e notte dopo notte stare insieme. Tu non ci vuoi bene?» il suo viso così dolce per una attimo si corrucciò, nonostante la sua fulgida bellezza rimanesse tale.
«Io ho bisogno di dormire, voi mi impedite di chiudere occhio. Ogni notte. Nemmeno i sonniferi mi aiutano più. Che cosa dovrei fare? Uccidermi?»
Tutti i presenti parvero scandalizzati da quella domanda, si ritrassero e tacquero.
Il giovane li guardò.
«Dunque è così che deve andare? Devo togliermi la vita per togliervi dai piedi?»
Nessuno rispose.
Un tonfo ripetuto alla finestra, catturò le attenzioni di tutti: la finestra si spalancò ed una passerella di ferro entrò nella stanza poggiandosi per terra.
Una dopo l’altro le eleganti figure del transatlantico fecero il loro ingresso, stringendo ancora i calici colmi di frizzante champagne.
«Voi che cosa volete?» urlò furente il giovane verso i festeggianti.
«Portiamo la speranza del nuovo anno! Buon anno a tutti signori!» urlò il primo sollevando il bicchiere e tutti quelli che gli erano dietro sulla passerella fecero lo stesso; poi sempre col sorriso stampato sulla faccia rasata che odorava di acqua di colonia, l’uomo, un alto sessantenne dal naso affilato e i capelli impomatati, si avvicinò alla fata, e con un elegante inchino le porse il proprio calice: «Por vous, mademoiselle!»
La fata rise, con quella risata cristallina e sincera che contraddistingue la sua razza, e negò con molto garbo l’offerta, preferendo alzarsi e andare ad abbracciare il giovane, sull’orlo della disperazione più nera.
«Anche se non ti apparteniamo, perché sognati da altri, noi torneremo sempre da te, mio dolce sognatore. Nessuno di noi vuole farti del male, vogliamo solo stare in tua compagnia, giacché sei l’unico che riesce a contenerci in una stanza sola.»
«E’ da quando ero bambino che mi perseguiate. Non solo voi, ma tutti i sogni delle persone. Pensavo che sarebbe finita; pensavo che col tempo tutto si sarebbe aggiustato, e invece tornate ancora.»
«E torneremo ancora.» rispose l’uomo in frac, mettendosi un monocolo per osservare meglio i pesci di rubino che sguazzavano.
«E ancora! E ancora! E ancora!» ripeté l’uccello sbattendo le braccia come fossero state ali.
La fata lanciò un’occhiata penetrante al pennuto che tacque all’istante.
«E’ vero, torneremo ogni notte.»
«Prima il pesce ha detto che siete obbligati: cosa vuol dire?»
La fata sedette sulle ginocchia, scostando una ciocca di capelli dal volto del giovane e asciugandoli con dolcezza le lacrime intorno agli occhi.
«Hai un’anima talmente forte che noi non possiamo andare nei sonni altrui. Vicino a te nessuno sogna, o almeno quelli che non hanno una volontà forte tale da resisterti e purtroppo sono in minoranza.»
«Perché questo?»
La fata fece spallucce.
«A questo potrei rispondere io.» disse l’uomo in frac in maniera distinta e composta. «Esistono persone che hanno una facoltà sognante fuori dal comune; altri che l’hanno nella norma; molti, ahimé invece sognano solo di riflesso. Tu appartieni alla prima categoria, non esiste un vero perché: è come chiedere perché il tuo vicino di casa ha sognato la sua collega di lavoro sottoforma di uccello rapace.» indicò l’uccello sul letto che sorrise malignamente.
«E’ così e basta. Semmai dovresti chiederti perchè divori i sogni altrui. Impedendo a quanti non ci riescono, di sognare liberamente.»
«Ma io non so perché.» ripeté disperato il giovane. «Voi mi parlate come se tutto questo fosse reale, e non un delirio di un malato di mente.»
«I deliri dei malati di mente sono più veri dei pensieri cosiddetti normali!» puntualizzò uno dei due pesci dalla pozzanghera luminosa.
«Ok. Basta così. Fuori da casa mia!» si alzò di scatto agitando le mani come a scacciare mosche invisibili.
«Ehi!» protestò il pesce. «Non puoi!»
«Già!» fece eco il secondo.
«Certo che posso. Anzi lo sto già facendo.» prese i pesci di rubino con entrambe le mani e li buttò fuori dalla finestra, oltre la passerella su cui le altre figure in abiti da sera erano rimasti a conversare.
«Ma che maniere, dico!» protestò scandalizzato l’uomo.
«Dico! Dico! Dico!»
«Ne ho abbastanza di tutti voi. Se ne vada o la strozzo con quel papillon nero!» lo minacciò il giovane puntandolo con il dito indice.
L’uomo fece una smorfia di disappunto e senza replicare girò sui tacchi e risalì sulla passerella, seguito a ruota da tutti gli altri; poi la solita passerella venne ritirata e al suono della sirena, il transatlantico ripartì lungo la via disabitata.
Il giovane si voltò verso l’uccello ingobbito più che mai, i suoi occhi neri erano come due perle di onice lucente che lo fissavano in modo minaccioso.
«Posso tirati il collo e cucinarti come si fa con una gallina.» gli disse.
Il pennuto si gonfiò di rabbia, si dondolò un attimo e volò via dalla finestra:
«Gallina! Gallina! Gallina!» urlò mentre volteggiava nella notte.
«Perché stai facendo questo?» la fata se ne stava in piedi con le mani strette sui fianchi e un espressione di sincera delusione.
«Voglio restare solo e dormire.»
«Tu non resterai da solo. E non dormirai. Tempo dieci minuti e altri sogni arriveranno a frotte qui. Almeno noi non siamo incubi!»
Il ragazzo deglutì impallidendo: «Come?»
«Credi di attirare solo un tipo di sogni? Per ora hai avuto fortuna, ma quando resterai da solo e il campo sarà di nuovo libero, chi lo sa cosa potrebbe richiamare la tua mente?»
Si guardarono per un attimo intenso e lunghissimo, poi la fata scosse il capo sconsolata:
«Buona fortuna, mio dolce sognatore.» gli disse prima di volare con grazia fuori dalla finestra.
Solo.
Era rimasto solo finalmente. Chiuse la finestra, la notte era ancora lunga e per la città nessun rumore si sentiva, il suo respiro sembrava la cosa più rumorosa in quel frangente di tempo. Sedette sul letto, la luce sul comodino accanto era ancora accesa, il foro nella lampadina stranamente era sparito, così come la luminosa pozza di luce sul pavimento.
“Che mi sia sognato tutto? No, non ho dormito, forse ho solo immaginato. E se la fata aveva ragione? Se dovessi attirare un incubo?”
Era stanco e gli occhi bruciavano come due tizzoni incandescenti, eppure non riusciva ad addormentarsi, un ticchettio sommesso, che veniva dalla parete accanto alla porta attirò la sua attenzione: le quattro e sedici del mattino.
Tra poco più di tre ore sarebbe suonata l’odiata sveglia e lui per quella notte, come ogni notte, non era riuscito a dormire.
Spense la luce, si sforzò di addormentarsi, sotto le coperte i suoi pensieri vagarono, fino ad arrivare a quanto le aveva detto a fata.
Uno scricchiolio.
“La porta?”
Come di una superficie di legno che scoppiettando si assestasse.
“L’avrò chiusa? Si certo che l’ho chiusa. Questa è solo suggestione.”
Poi il cigolio della porta che lentamente si apriva verso l’interno della stanza.
“Qualcuno sta entrando…”
Si immobilizzò, trattenne il respiro.
“Se avessi lasciato accesa la luce forse…”
Lentamente il suono di passi strapparono il silenzio: erano passi strascicati, come di qualcuno che trascinasse a fatica qualcosa, mentre un odore nauseabondo si diffuse in tutta la camera.
“O mio Dio…”
Attese incapace di reagire, incapace anche solo di tremare, mentre i passi si avvicinavano al suo letto, sempre di più.
Sempre di più…